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Ferrara: ritrovare Schifanoia

Ferrara: ritrovare Schifanoia

A quasi dieci anni dalla chiusura, riapre lo straordinario Palazzo di Ferrara, ora trasformato in Museo. Uno «scrigno» che racconta la storia rinascimentale della città con il Ciclo dei Mesi di Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, e una grande collezione che arriva ad Antonio Canova.


In tanti anni di vita e di studi a Ferrara, ricordo sempre con emozione le visite agli affreschi di Francesco del Cossa e dei suoi, anche quando erano sporchi (prima dell’intervento di Ottorino Nonfarmale), anche quando erano poco visibili (prima dell’attuale illuminazione avvolgente e progressiva, dovuta allo studio Pasetti), ma sempre travolgenti con le loro continue invenzioni, la festa dei colori e dell’oro che, con cinismo, il duca Borso d’Este finse di non vedere.

Nel cinquantesimo anniversario della morte di Roberto Longhi, il grande studioso che ha restituito pieno lustro ai pittori di Ferrara con la sua Officina ferrarese, capolavoro della letteratura, oltre che della critica d’arte italiana, una scellerata azione denigratoria, che punta a minare alcuni fondamenti di quegli studi e di quel metodo, viene da un allievo di Carlo Ludovico Ragghianti, storico antagonista di Longhi, tale Ranieri Varese, «docente incaricato d’insegnamento», privo di meriti scientifici riconosciuti, ma per molti anni svogliato direttore dei musei civici ferraresi e, in particolare, di Palazzo Schifanoia.

In quel luogo, oggi restituito alla sua piena luce, ha lavorato con più impegno di altri maestri in parte non identificati, Francesco del Cossa, allievo ideale di Piero della Francesca, e sul quale, diviso fra Ferrara e Bologna, ha scritto, con rinnovato zelo longhiano, un giovane studioso al quale rimando, Giacomo Alberto Calogero. Nessun dubbio che, tra i pittori di Schifanoia, Francesco del Cossa fosse, nello spirito di Leon Battista Alberti e di Piero, il più significativo e la più sicura guida, tanto da essere al centro dell’incidente con il duca Borso, committente, che non gli volle riconoscere l’equo compenso per il suo maggiore impegno.

Tra gli artisti che lo guardarono come un esempio, sempre in dialogo con Piero della Francesca, c’è il giovane Ercole de’ Roberti che ritroveremo poi, con lui, nel Polittico Griffoni a Bologna, qualche anno dopo. Ebbene, la sua precoce presenza nel mese di Settembre, senza documenti certi o fonti attendibili, era stata identificata dall’occhio di Roberto Longhi che ebbe, davanti ai Decani e alla silenziosamente assordante Fucina di Vulcano, un’illuminazione così precisa da farsi documento incontestabile.

Ciò che Ercole è, e ciò che di Ercole sappiamo, parte di lì; al punto che nell’edizione Sansoni delle opere complete di Roberto Longhi la copertina è proprio la Fucina di Vulcano di Ercole. Incredibilmente, il modesto Varese non risparmia Roberto Longhi e lo sfregia scrivendo: «La citazione della figura di Ercole de’ Roberti non tiene conto del fatto che, per ragioni anagrafiche, molti studiosi lo danno assente da Schifanoia e comunque non in rapporto di discepolanza con il Cossa».

Con il diniego a Ercole assistiamo alla aggressione gratuita a uno dei monumenti critici del Rinascimento italiano. Con straordinaria intuizione Longhi riconobbe, nello spirito potentemente sperimentale e nell’evidente supremazia dell’invenzione, il linguaggio astratto e «cubista» di una personalità nuova, identificandola in Ercole de’ Roberti, uscito dalla fertile bottega di Francesco del Cossa.

Pochi pittori hanno mostrato dignità e carattere come quest’ultimo che, offeso nel suo merito, si trasferì a Bologna animando una nuova scuola ferrarese. Ma in tanti anni, e pur muovendomi nella stanza delle Virtù e nelle successive, non mi ero accorto che Palazzo Schifanoia contenesse una tale raccolta di miniature, pitture, sculture, medaglie, monete, e oggetti di ogni tipo, un vero museo civico.

Le pessime e sciatte direzioni degli ultimi decenni avevano trasformato la creatura di Giuseppe Agnelli, il primo direttore, in un magazzino con le opere esposte in disordine e malagrazia. Così il museo si è ripiegato su se stesso fino a dissolversi. Ora, dopo quasi dieci anni di chiusura dai giorni del terremoto 2012, il museo non riapre ma rinasce. Il primo tempo investe l’area quattrocentesca dell’ampliamento voluto proprio da Borso d’Este con il grande Salone dei mesi. In origine era un edificio trecentesco fatto costruire da Alberto V d’Este. In settembre anche questa ala sarà riaperta. Il percorso, ora, è ampio e maestoso e si articola in 11 sale, alcune mai viste prima, con quasi 200 opere esposte.

Un valoroso storico dell’arte, Giovanni Sassu, conservatore dei musei di storia dell’arte antica, con grande sensibilità ha restituito ordine e misura alle disordinate raccolte, affiancandosi agli architetti Federico Orsini e Filippo Govoni di QB Atelier, nell’ambito delle iniziative della Fondazione Ferrara Arte che io presiedo. Superato il Salone dei mesi si entra nella Sala delle virtù che prende il nome dal fregio con le mirabili sculture riferite a Domenico di Paris, fratello di Francesco del Cossa nella fantasia e nei colori accesi degli stucchi dorati e policromi, con riquadri decorati da festoni, ghirlande e putti; al centro lo scudo araldico estense (i gigli di Francia e l’aquila imperiale) e le imprese del duca come l’Unicorno, che allude alla purezza, il Paraduro, che richiama la bonifica delle campagna voluta da Borso, il Battesimo, simbolo di prudenza, il Fuoco, emblema di carità e amore.

Qui è esposta, in essenziali vetrine, la Bibbia dei monaci certosini di San Cristoforo, uno degli esempi più alti della miniatura quattrocentesca, concepita in parallelo con gli affreschi dei Mesi, tra 1468 e 1476. Nella successiva Sala delle Imprese altri codici corali della Certosa, antifonari e graduali destinati al canto durante l’ufficio divino con lettere miniate, iniziali istoriate, in gran parte dovute a Guglielmo Giraldi e ad Alessandro Leoni. La sapienza compositiva delle pagine è la stessa espressa nelle grandi dimensioni dai pittori degli affreschi: ispirazione, sensibilità, fantasia sono le medesime. Accompagnano i codici miniati ceramiche estensi e medaglie coeve.

Dalle trascrizioni settecentesche dei documenti originali apprendiamo il nome degli miniatori coinvolti: fra’ Evangelista da Reggio, Giovanni Vendramin, Martino da Modena e Jacopo Filippo Medici detto l’Argenta, vero protagonista dell’impresa, già al fianco di Taddeo Crivelli negli anni 1455-56 durante la realizzazione della Bibbia di Borso d’Este, oggi custodita alla Biblioteca Estense di Modena. All’Argenta si deve l’importazione nel campo della miniatura di quel processo di regolarizzazione degli eccessi espressivi operato in pittura alla fine del Quattrocento da Ercole de’ Roberti.

Seguono il Decretum Gratiani e il Libro d’Ore Mangino. Possiamo convenire che la miniatura, nella sua consolidata tradizione, è l’asse portante della Officina ferrarese. Nella stanza successiva domina la formidabile Pala Grossi, mio diretto contributo al museo, spostandone il deposito dalla Galleria Estense di Modena a Schifanoia con la nuova attribuzione a Giovanni Antonio Bazzi, bilanciata tra Mantegna e Antonio da Crevalcore.

Di fronte, la scultura con la Vergine dolente dell’ambito di Guido Mazzoni. Inizia così il percorso della scultura a Ferrara, da Paolo di Jacobello dalle Masegne al donatelliano Nicolò Baroncelli, dalla madonna di Antonio di Cristoforo a quella, in terracotta policroma, di Domenico di Paris. Il massimo sfarzo per la scultura è nella Sala dei Marmi, dominata dal sepolcro di Sperandio Presciani. Intorno terracotte, tra cui una maliosa terracotta di tenue policromia, fortemente seduttiva, e due invetriate di Andrea Della Robbia. Si prosegue con le minacciose polene di Alfonso I, fino a medaglie e monete del tempo della Devoluzione.

Quando finisce l’età degli Estensi (1598) inizia la stagione del dominio pontificio, e, in piena Controriforma, la pittura ferrarese ha ancora una vitalità cromatica e originalità di invenzione in pittori come il raro Bastarolo: memorabile la pala con la Madonna con il Bambino in gloria e le Santa Barbara e Orsola con le zitelle. Il pittore esprime una devozione semplice e popolare, illustrando nella composizione spaziale gerarchica, a tre piani paralleli, il concetto, corrispondente al clima religioso controriformato, della mediazione tra il divino e l’umano propria dei santi. Non meno notevoli le prove di Scarsellino, presente con una teatrale Deposizione, del gracile e gustoso Giuseppe Caletti, e del grande Carlo Bononi.

Superato il meno creativo Settecento, dove si distingue un melodrammatico San Giovanni Battista di Giuseppe Ghedini, si arriva alle ultime due sale con le raccolte del Cardinale Giovanni Maria Riminaldi, dominate dal maestoso ritratto di Anton Von Maron. Il Cardinale era curioso di tutto, dai marmi romani, esposti in un mobile settecentesco, una litoteca, ai bronzi, ai mosaici minuti. Chiude il percorso il Busto di Leopoldo Cicognara capolavoro di Antonio Canova che gli fu amico e ne ascoltò i consigli. Ancora parla.

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