Auto elettriche, pale eoliche offshore, case, agricoltura, economia… Le politiche «verdi» dell’Ue gravano sui Paesi membri, ma è la stessa Corte dei conti europea a certificarne errori e fallimenti.
Le premesse c’erano tutte visti i tanti annunci fatti e i miliardi messi a disposizione. Il risultato, però, è stato un disastro. L’Unione europea, se da una parte non lesina moniti ai singoli Paesi membri sulla necessità di impegnarsi sul fronte della tutela dell’ambiente e della transizione ecologica, in casa propria ha fallito. A dirlo chiaramente sono relazioni tecniche, dossier interni, audizioni della Corte dei conti Ue. Tutti tasselli che, se messi uno accanto all’altro, disegnano un quadro piuttosto desolante.
Prova ne sono gli obiettivi climatici per il 2030. L’Ue vorrebbe che per allora si arrivassero a tagliare le emissioni di gas serra del 55 per cento rispetto ai livelli del 1990. Peccato però che, scrivono i magistrati contabili comunitari, «ben pochi segnali indicano che le azioni intraprese per conseguire gli obiettivi saranno sufficienti». Ecco allora la marea di misure, tutte aspramente criticate. Come quelle sull’efficientamento energetico delle case, che rischiano di avere conseguenze economiche disastrose sui proprietari.
Il vero problema? Qualcuno a Bruxelles ha sbagliato tempi e modi di finanziamento, a detta ancora della Corte dei conti. «L’Ue» evidenzia ancora la relazione «si è impegnata a spendere per l’azione per il clima almeno il 30 per cento del bilancio 2021-2027, circa 87 miliardi di euro all’anno». Tanto? No, alla luce di quello che ci sarebbe da fare con una scadenza peraltro così ravvicinata. Parliamo infatti di «meno del 10 per cento degli investimenti totali necessari per raggiungere gli obiettivi per il 2030, stimati approssimativamente a mille miliardi di euro all’anno». La soluzione? «I restanti investimenti dovrebbero provenire da finanziamenti nazionali e privati». Comodo, non c’è che dire.
Fallimenti, però, si registrano anche sul fronte dell’economia circolare, altro capitolo cui l’Ue ha dedicato piani specifici. Troppi, forse, considerando che, a suon di direttive, carte bollate, indicazioni e moniti, alla fine – solo su questo tema – la Commissione europea ha creato un caos all’interno del quale è difficile districarsi. Sono due infatti i piani d’azione: il primo, del 2014, conteneva 54 azioni specifiche; il secondo, del 2020, ha aggiunto 35 nuove azioni e fissato obiettivi che raddoppiano il tasso di circolarità, ossia la quota di materiale riciclato e reintrodotto nell’economia, per il 2030. Il risultato? L’ha spiegato senza giri di parole ancora un membro della Corte Ue, la belga Annemie Turtelboom: «Le azioni finora intraprese dall’Ue sono state inefficaci e la transizione verso l’economia circolare è quasi ferma in molti Paesi europei».
Ci sono, però, casi ancora più surreali. Come quelli che riguardano pale eoliche offshore e auto elettriche. Su entrambi i fronti i paletti fissati dall’Ue erano e sono ambiziosi. Peccato che nessuno abbia fatto analisi approfondite sugli effetti di tali politiche. Prendiamo le pale eoliche: dal 2007 sono stati erogati 2,3 miliardi di euro a favore delle tecnologie Ero (energie rinnovabili offshore). In aggiunta, la Banca europea per gli investimenti ha collocato sul fronte 14,4 miliardi. Bene, si dirà. Niente affatto. Innanzitutto perché «l’impatto degli impianti sull’ambiente marino non è stato adeguatamente delineato, analizzato o fronteggiato». Nessuno ci ha pensato. E solo oggi relazioni interne realizzate ad hoc sottolineano che «i potenziali effetti cumulati possono determinare spostamenti di specie, cambiamenti nella struttura delle popolazioni, cambiamenti nella disponibilità del cibo o cambiamenti nei modelli migratori». Non solo. C’è un problema anche economico poiché le materie prime per realizzare le pale eoliche arrivano quasi esclusivamente dalla Cina.
Senza dimenticare, ancora, le lunghe procedure nazionali di autorizzazione che possono superare i 10 anni. Ciononostante l’Ue ha fissato obiettivi ambiziosi, volendo raggiungere i 61 GW di capacità installata entro il 2030 e i 340 GW entro il 2050 quando ora sono appena 16 GW. È stato ovviamente calcolato il costo: 800 miliardi di euro. E anche in questo caso si spera nei privati. Chiudiamo col «paradiso» delle auto elettriche, su cui l’Ue investe: tra il 2014 e il 2020, il settore delle batterie ha ricevuto almeno 1,7 miliardi, in aggiunta a quasi 6 miliardi di aiuti di Stato autorizzati tra il 2019 e il 2021, principalmente in Germania, Francia e Italia. Risultato? «L’industria continentale delle batterie resta indietro rispetto ai concorrenti mondiali, in particolare la Cina, che rappresenta oltre il 76 per cento della capacità di produzione mondiale», appuntano i magistrati contabili in una recente relazione. Senza dimenticare che anche in questo l’Europa è sprovvista di materie prime. La conseguenza è inevitabile: «I fabbricanti di batterie potrebbero abbandonare l’Unione e trasferirsi in altre regioni, non da ultimo negli Usa, che offrono loro massicci incentivi». Incentivi che da Bruxelles, ancora una volta, non sono stati previsti.
