Il referendum sull’eutanasia promosso dall’asse trasversale di Marco Cappato punta al milione di firme. Ma nonostante i limiti posti dalla Corte costituzionale, il rischio è di legalizzare «l’omicidio consenziente»
La scorsa settimana mi sono concesso qualche giorno di riposo in una località di mare. Ne scrivo non per informarvi delle mie vacanze, di cui penso non importi un fico secco a nessuno, ma perché ho visto qualcosa che ha attirato la mia attenzione. E che credo dovrebbe attirare anche la vostra. Nella piazza del piccolo paese ligure, un gruppo di persone faceva la fila davanti a un gazebo. Al momento ho pensato che si trattasse di un banchetto della Lega in cui si raccogliessero le firme per abolire alcune norme riguardanti la magistratura, tra cui quella che impedisce di citare in giudizio un giudice o un pm per gli errori commessi. Ma poi, avvicinandomi, ho capito che si sottoscriveva la richiesta di un referendum, ma l’argomento oggetto della raccolta di adesioni non erano le toghe, bensì l’eutanasia.
Sì, le persone facevano la fila per chiedere la «dolce morte». Promossa da una serie di associazioni, tra cui quella che porta il nome di Luca Coscioni, e da una serie di gruppi «progressisti» (Sinistra italiana, Verdi, Radicali, +Europa, Arci e vari circoli di Cgil e Pd), la campagna per il plebiscito ha già superato la soglia delle 500 mila firme, limite richiesto per proporre un referendum, e secondo i fautori dell’iniziativa nelle prossime settimane si andrà ben oltre le 750 mila adesioni. Immagino che il successo dell’operazione sia dovuto in gran parte allo slogan, che pur promettendo la morte lo fa in nome della libertà. Marco Cappato, ideatore della campagna oltre che tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, ha infatti scelto una frase semplice, ma molto evocativa: «Liberi fino alla fine». Eh già, chi non desidererebbe essere libero fino alla fine dei propri giorni? Così le persone si affollano attorno a un gazebo, aspettando pazienti sotto il sole il proprio turno per rivendicare il diritto di morire quando vogliono. L’idea che invece di stare in spiaggia e godersi la vacanza qualcuno faccia la fila pretendendo la libertà di suicidio è una cosa che mi ha colpito e mi ha indotto a riflettere.
La prima domanda che mi sono fatto è la seguente: ma questi signori sanno che cosa stanno firmando? E la risposta che mi sono dato è stata: credo di no. Sì, so che vi sembrerò presuntuoso e forse perfino offensivo, ma ho la sensazione che la maggior parte di coloro che si sono messi in fila non sappia che cosa stesse firmando. Non perché è stupida, ma solo perché disinformata e si è fidata dello slogan suadente di Cappato e compagni, ovvero della promessa di essere liberi fino alla fine.
Tutti coloro che hanno sottoscritto il referendum credo che abbiano in testa le immagini di Eluana Englaro e di Dj Fabo, ovvero di due ragazzi che a causa di un incidente erano prigionieri in un corpo che non rispondeva più al loro volere, senza cioè alcuna attesa di vita normale. Eluana era in stato vegetativo da 17 anni quando i giudici autorizzarono il distacco delle macchine che la tenevano in vita. Dj Fabo era cieco e tetraplegico quando scelse di farsi accompagnare in Svizzera per ricevere un cocktail di barbiturici. Entrambi non erano in grado di sfuggire al corpo che li teneva incatenati a un letto e sono le loro immagini l’argomento più forte usato dai promotori del referendum per l’eutanasia libera. Il messaggio è chiaro: se non volete finire come loro, se non volete che qualcun altro decida della vostra vita e della vostra morte, firmate qui e anche se non sarete in grado di dire basta all’accanimento terapeutico, perché sarete in coma o impossibilitati a premere un pulsante, se lo vorrete ci sarà qualcuno che lo farà per voi.
Ovvio: nessuna persona può desiderare di sopravvivere sebbene non possa vivere, cioè fare le cose che ha sempre fatto, come mangiare, viaggiare, amare. Che vita è quella in un corpo steso in un letto? Già, ma il referendum che reclama il fine vita, l’eutanasia legale, non si occupa di persone come Eluana o Dj Fabo, ma di abolire una parte dell’articolo 579 del Codice penale, ovvero la norma che punisce con la reclusione da sei a 15 anni l’omicidio del consenziente. Del diritto al fine vita, quello per intenderci che ha riguardato persone come Eluana e Dj Fabo, si è già occupata la Corte costituzionale nel 2019, con una sentenza che riguardava il caso Cappato, l’ex parlamentare europeo che accompagnò Fabiano Antoniani a togliersi la vita. In quell’occasione i giudici della legge dichiararono incostituzionale la parte dell’articolo 580 del Codice penale che puniva chi agevolava un suicidio. La cosa potrà sembrarvi faccenda per addetti ai lavori, ma così non è perché non si tratta di lana caprina bensì di vita. Un conto infatti è aiutare «l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Un altro è liberalizzare ogni forma di omicidio del consenziente.
Abolendo parallelamente l’articolo 579 del codice penale, come chiedono i sostenitori del referendum, chi uccide un uomo che desidera morire perché è depresso, è stato lasciato dalla fidanzata o ha perso tutto a causa di una bancarotta, non è punibile. Anche se gli ha sparato o lo ha aiutato a impiccarsi predisponendo la corda. Altro che «dolce morte». Una persona psichicamente fragile può volersi togliere la vita, ma questo non deve indurre nessuno ad aiutarla, perché non si tratta di un «suicidio assistito» di un malato terminale: si tratta di omicidio.
La Consulta, quando dichiarò incostituzionale parte dell’articolo 580, spiegò che per non essere punibile, l’intervento di un terzo per «morte desiderata», oltre a essere stato sollecitato da una persona «pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli», richiedeva la verifica «delle condizioni e delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente». In pratica, sosteneva che non era possibile aiutare una persona che si voleva togliere la vita a prescindere dalle sue condizioni fisiche, cioè da una patologia irreversibile. Ma il referendum con cui si vorrebbe cancellare la punibilità interviene sul suicidio agevolato, cancellando le pene nei confronti di chi aiuta un altro a morire senza tener conto delle sue condizioni. In pratica, un depresso, con istinti suicidi, invece di essere aiutato e curato, cioè salvato, grazie alla modifica che Cappato e compagni vorrebbero introdurre nel nostro ordinamento, potrebbe essere accompagnato al camposanto da qualcuno che, grazie alla non punibilità, gli fornisce la corda per impiccarsi, aiutandolo magari anche a fare il cappio e a togliersi lo sgabello da sotto i suoi piedi.
Esagero? Sposo la tesi di qualche cardinale che solo a sentire parlare di fine vita diventa più rosso della porpora che indossa? Macché. Le stesse tesi le ha spiegate un signore del calibro di Luciano Violante, che non è proprio un monsignore ma un uomo di sinistra con una certa competenza in materia di Codice penale. Ex giudice istruttore e a lungo considerato il capo del partito delle toghe, Violante oltre che presidente della Camera è stato docente di Diritto e procedura penale. Così qualche giorno fa ha preso carta e penna per lanciare su Repubblica un avvertimento ai tanti laici che hanno sposato la campagna di Cappato. Il titolo confezionato dal redattore del quotidiano sconsigliava la lettura, perché più che l’appello di un giurista pareva la predica di un teologo: «Il limite tra fine vita e diritti». Tuttavia, a prescindere dalla scelta giornalistica di annacquare il contenuto, le parole erano chiare: «Non sempre le buone intenzioni riescono a fermare le cattive conseguenze».
Violante spiegava che non serve alcun referendum per applicare la sentenza della Corte costituzionale, al massimo alcune indicazioni che il ministero della Salute dovrebbe impartire al Servizio sanitario nazionale, affinché renda esecutiva quella parte in cui si parla di «verifica delle condizioni e delle modalità» di aiuto al fine vita. Sì, insomma, basta un decreto per risolvere casi come quello di Dj Fabo. Conclude Violante, non monsignor Paglia: «Si eviti che il Paese, prigioniero delle buone intenzioni, autorizzi inconsapevolmente a schiacciare i più deboli». Ecco, chissà se quella gente in fila, in braghette corte e maglietta a mezze maniche, sudata e in costume, si rendeva conto che stava mettendo la sua firma per chiedere un referendum che rischia di contribuire a schiacciare i più deboli? Chissà se conosceva la storia di quel ventenne che un anno fa, dalle parti di Viareggio, ha iniettato una dose letale di insulina all’amico che glielo aveva chiesto, lasciandolo poi morire in un prato e avvisando solo tre giorni dopo la famiglia del defunto? Credo proprio di no.
