Come trent’anni fa nella ex Jugoslavia, anche oggi abbiamo la guerra alle porte di casa. E il Vecchio continente sta adottando la stessa colpevole distrazione, la medesima ignavia, l’uguale difesa dei propri interessi economici.
Uno dei meriti attribuiti all’Europa è di aver garantito quasi ottant’anni di pace al Vecchio continente. In realtà non è poi tanto vero, perché trent’anni fa una guerra insanguinò l’Europa, o meglio la sua porta, che tuttavia le cancellerie occidentali si guardarono bene dall’aprire, per evitare di essere coinvolte dal conflitto, preferendo perciò voltare la testa da un’altra parte.
A pagina 60, Giorgio Gandola e Fausto Biloslavo ricostruiscono l’inizio del conflitto nell’ex Jugoslavia, che cominciò con una sparatoria fuori da una chiesa ortodossa di Sarajevo (guarda caso anche la Prima guerra mondiale partì da lì) durante un matrimonio, ed è finita con uno spaventoso sterminio di cui neppure esiste una contabilità precisa, perché nessuno si è dato la pena di stabilire quanti furono passati per le armi. Si dice 100.000, ma forse di più e in massima parte bosniaci.
Mentre i cecchini di Radovan Karadžić (lo psichiatra serbo che s’incaricò per conto di Slobodan Milošević di pianificare il genocidio) iniziarono a sparare sulla folla dal quinto piano dell’Holiday Inn, l’Europa firmava il trattato di Maastricht, atto che diede vita alla Ue e di conseguenza all’euro. In pratica, mentre a poche centinaia di chilometri dal confine italiano cominciava il primo massacro dopo la fine della Seconda guerra mondiale, i Paesi che sognavano la nascita degli Stati Uniti d’Europa parlavano di soldi e pianificavano il loro sviluppo futuro, confermando il famoso detto che vuole il Vecchio continente un gigante economico, un nano politico e un verme militare.
Se parlo di ciò che accadde trent’anni fa alle porte di casa nostra mentre noi chiudevamo gli occhi, non è per andare a caccia delle responsabilità del passato o individuare le colpe della classe politica dell’epoca, che pure era composta da personaggi della statura di François Mitterrand, Helmut Kohl, John Major, José María Aznar, Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi.
No, ricordo tutto ciò perché la stessa colpevole distrazione, la medesima ignavia, l’uguale difesa dei propri interessi economici, l’Europa la sta adottando in questi giorni, fingendo di non vedere la nuova guerra che sta per scatenarsi sul fronte orientale. Dopo aver sostenuto per anni l’Ucraina, illudendola di essere ammessa alla Ue, le cancellerie europee hanno ignorato otto anni fa l’annessione della Crimea decisa da Mosca e l’occupazione da parte dei russi del Donbass, la regione di confine.
Un conflitto a bassa intensità, finito sulle prime pagine dei giornali e nei tg della sera solo in rare occasioni, ovvero quando, nel 2019, un missile colpì un aereo malese che sorvolava una zona a 750 chilometri da Kiev, uccidendo 283 passeggeri partiti da Amsterdam e 15 membri dell’equipaggio. Sì, da otto anni alle porte d’Europa si spara e si muore.
Ma l’Europa è troppo presa dagli affari, dalle crisi di banche e industrie, dal Mes e dal Fiscal compact per occuparsi di queste cose. E poi ci sono gli affari con la Russia, il gas fondamentale per tenere accese le nostre aziende, soprattutto ora che il prezzo dell’energia è salito alle stelle e le bollette, per imprese e privati, si sono trasformate in un salasso.
Sì, abbiamo la guerra sull’uscio di casa, ma da otto anni facciamo finta di niente, anzi un po’ l’attizziamo, promettendo aiuto all’Ucraina e difendendone le ragioni oltre che lasciando intendere che presto o tardi entrerà a far parte della Ue e della Nato. Risultato, Vladimir Putin, che non vede l’ora di ricreare una piccola Unione sovietica, ora minaccia di attaccare Kiev. Da tempo ammassa truppe al confine e gli ucraini schierano i volontari, scavano le trincee, costruiscono cavalli di Frisia, come se la Seconda guerra mondiale non avesse insegnato nulla. Quasi che le poche armi e i pochi sostegni inviati dai Paesi occidentali, America compresa, possano fermare l’avanzata dell’ex Armata rossa.
Mentre Mosca minaccia di aprire il fuoco, l’Europa apre trattative e spara comunicati. Ma dietro il muro di parole eretto a difesa dell’Ucraina si nascondono gli interessi nazionali. La Germania critica Putin, ma è tiepida sulle sanzioni, perché è interessata al gasdotto del Nord che deve alimentare le sue fabbriche. L’Italia, tutta presa dai giochi politici sul Quirinale, ha lasciato che i vertici di molte aziende, alcune anche pubbliche, incontrassero il capo del Cremlino per parlare d’affari, forse anche perché pure al nostro Paese sta a cuore il gas russo.
Se Mosca chiudesse i rubinetti, certo sarebbe un danno anche per Putin, perché l’economia russa campa in gran parte con l’export di Gazprom, ma per le aziende europee sarebbe peggio. E poi, in fondo, l’uomo che sogna un ritorno all’Urss può sempre vendere ad altri, rifornendo con navi cisterna i turchi o i cinesi o tutti quegli Stati che oggi hanno bisogno di energia per sostenere il loro Pil.
Sì, gli interessi in gioco sono enormi. Oltre al rischio di un conflitto mondiale, c’è il pericolo di una crisi internazionale e per di più in epoca Covid, quando i bilanci dei Paesi Ue soffrono. Dunque, l’Europa nata per garantire la pace e creare gli Stati Uniti del Vecchio continente, come trent’anni fa, preferisce chiudere gli occhi e girarsi da un’altra parte. A parole difende i principi, nella sostanza il proprio portafogli.
