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I politici italiani e l’alibi dell’euro

I politici italiani e l’alibi dell’euro

L’editoriale del direttore

Caro direttore, ho appena letto gli articoli di copertina del nuovo numero, ma siamo sicuri che la colpa del nostro declino sia dell’Europa? Ci ha chiesto l’Europa di mandare in pensione i dipendenti pubblici dopo 15 anni? Di elargire pensioni da 90 mila euro al mese? Di avere più dipendenti pubblici di tutti gli altri e più pagati di tutti gli altri? Vogliamo parlare della Sicilia? L’elenco potrebbe essere lunghissimo. Capisco che è più facile dire che è colpa degli altri, ma un articolo alternativo ci stava bene. La Germania ha fatto le riforme, noi? Grazie.
Mauro, abbonato da 20 anni


Caro Mauro, temo ci sia un equivoco. Pubblicare un’inchiesta su 20 anni di euro non significa sostenere che le colpe del declino dell’Italia siano tutte dell’euro. Se abbiamo presentato una valutazione critica di due decenni di moneta unica è semmai perché qualcuno ha ritenuto che senza più la lira, ma con un sistema monetario condiviso in tutta Europa avremmo risolto tutti i nostri problemi.

Nessuno ha intenzione di negare che il nostro Paese abbia fatto scelte sbagliate e gettato una montagna di soldi dei contribuenti in spese inutili e rendite parassitarie. A costruire uno dei più grandi debiti pubblici dei Paesi occidentali siamo stati noi, non certo l’Europa, ma anziché affrontare i problemi alla radice negli anni Novanta si è pensato, come al solito, di arrangiare una soluzione all’italiana.

L’idea era semplice: sarà l’Europa a risolvere per noi i guai a cui non riusciamo a porre rimedio, perché ci obbligherà alle riforme che non siamo capaci di fare. Non volendo prendere decisioni impopolari, la classe politica dell’epoca pensò di farle prendere alla Ue, tramite la moneta unica: una scelta che a distanza di anni si è rivelata disastrosa. Perché il nostro debito pubblico non si è ridotto, ma anzi è aumentato, perché i nostri redditi, sebbene siano diminuiti, non hanno concorso a rendere più efficiente il sistema, né a rimborsare l’enorme stock di obbligazioni emesse dallo Stato.

Certo, la colpa non è della Ue se il numero di forestali della Sicilia è cinque volte superiore a quello del Canada, né è responsabilità di Angela Merkel o di Ursula von der Leyen se il Comune di Palermo pur essendo, per numero di abitanti, la metà di Milano ha il doppio dei dipendenti pubblici.

Non è colpa di Bruxelles se la spesa per l’assistenza nel decennio che va dal 2008 al 2018 è cresciuta del 50%, passando da 73 miliardi a 110 (e la cifra non includeva ancora il Reddito di cittadinanza), né si può addossare ad altri che non sia la nostra classe politica se su 16 milioni di pensionati, circa la metà è totalmente o parzialmente a carico delle casse pubbliche, cioè dei contribuenti.

L’elenco di cose che non vanno in Italia è lungo e potrei continuare citando i redditi che ogni anno vengono dichiarati: a scorrere le statistiche dell’Agenzia delle entrate si scopre – come ho scritto nel numero scorso – che a pagare l’Irpef è una minoranza e il 25% di chi la versa concorre a un gettito complessivo pari all’80% del totale.

No, caro Mauro, io non sostengo che il declino del nostro Paese sia da attribuire all’euro: penso che la moneta unica sia stato un grande alibi per la classe politica, una sorta di illusione che ha indotto molti a ritenere che, rinunciando alla lira, noi avremmo risolto tutti i problemi di inefficienza e spreco che ci trascinavamo da anni. Lei ha ragione a citare la Germania, perché a Berlino Gerhard Schroeder, il cancelliere che precedette Angela Merkel, pur essendo di sinistra ha riformato il mercato del lavoro e introdotto una flessibilità che da noi ancora non c’è. Lo ha fatto senza curarsi del consenso immediato e infatti ha perso le elezioni, finendo poi per lasciare la politica.

Da noi no, il politico ha un orizzonte di pochi mesi e non pensa certo a ritirarsi, dunque le decisioni guardano al prossimo voto e per capitalizzare le promesse e le scomode verità non si affrontano mai. Così passiamo di governo in governo a parlare della riforma della burocrazia statale che dovrebbe velocizzare le scelte e di quella della giustizia civile, senza mai però farne alcuna che sia risolutiva.

Lo stesso si può dire della riforma fiscale: non c’è esecutivo che non ne annunci una, tuttavia le tasse crescono insieme con il debito pubblico e i volumi dell’evasione. E dire che al Fisco abbiamo concesso di spiare ogni cosa che ci riguardi, conti correnti compresi. Com’è possibile, dunque, che chi ha un tenore di vita superiore al reddito e perciò è un probabile evasore non venga individuato? La risposta è semplice: spesso le banche dati dei ministeri non sono collegate fra loro e perciò i furbi la fanno franca.

Le faccio un esempio: in Italia la Sogei, una società del ministero delle Finanze che immagazzina i nostri dati, riceve ogni giorno centinaia di migliaia di informazioni sulla nostra salute, perché quando in farmacia diamo il codice fiscale per detrarre le spese sui farmaci, a Roma ricevono una segnalazione. Dunque, c’è una banca dati che ha milioni di informazioni sugli italiani. Bene, ma invece di attingere a questo patrimonio per predisporre un piano vaccinale, sa che cosa ha fatto il ministero della Salute? Si è costruito un data base in casa.

Ecco, caro Mauro: io sono arciconvinto che le colpe siano nostre, ma penso anche che l’euro, invece di aiutarci a risolvere i problemi, abbia contribuito a farci rinviare la soluzione, con la scusa che eravamo stati accolti nel salotto buono e non in cucina. I tedeschi sono stati bravi e hanno fatto i loro interessi. Noi non abbiamo fatto i nostri. Anzi, con Mario Monti ci siamo illusi di aver fatto i compiti a casa, ma a distanza di 10 anni ci rendiamo conto che era una pietosa bugia.

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