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Liberi di trasgredire

Liberi di trasgredire

Il pittore Mattia Moreni, la fotografa Nam Goldin, il performer Orlan, il genio del teatro Carmelo Bene. E come figura di riferimento, Pier Paolo Pasolini. Al Mart di Rovereto si raccontano gli «eretici» contemporanei. Che nel rifiuto del potere e del pensiero dominante hanno fatto coincidere arte e vita.


Non vi accadrà più, se mancate l’occasione di venire al Mart di Rovereto per la polifonica mostra Eretici. Arte e vita, di vedere, sentire, toccare una così sgangherata proposta di tutto ciò che, dopo le totalizzanti esperienze delle avanguardie del primo Novecento, dai futuristi a Marcel Duchamp, ha rappresentato il pensiero libero e la ricerca estrema di originalità, perversione, disorientamento. In una parola: eresia. Non c’è altra strada, nel Novecento, per esistere. Ed è una esistenza in perenne contrapposizione, contro i dogmi e contro le protezioni che hanno, prima durante il Fascismo, poi nell’affermazione, prefigurata da Antonio Gramsci, dell’intellettuale organico, rappresentato la cultura ufficiale, ovvero l’arte di regime. Il rapporto con il potere è un’attrazione fatale per gli intellettuali, e talvolta con risultati ragguardevoli. In ogni rivoluzionario si nasconde un accademico, e noi abbiamo vissuto per circa un secolo il «regime di regimi», con avventure intellettuali non sempre riducibili a una subordinazione al potere, se pensiamo a quanti intellettuali furono prima fascisti poi comunisti, con imperturbabile coerenza, e alla convivenza, in alcuni di loro, di individualismo e conformismo (i casi di Giovanni Papini, Massimo Bontempelli, Alberto Moravia, anche di Ferdinando Depero, Mario Sironi e Renato Guttuso).

Il secolo, alla fine, è dei solitari, come Giorgio Morandi e Carlo Emilio Gadda in cui, come avrebbe detto Adriano Tilgher, la vita prevale sulla forma. Nessun dubbio che Gadda sia più grande di Moravia, ma l’influenza sulla società di quest’ultimo è stata sicuramente maggiore. Quale società? Quella che passava dall’Italia contadina, così meravigliosamente rappresentata da Antonio Delfini (che muore nel 1962), all’Italia industriale (denunciata, nella sua miseria, da Leo Longanesi). In premessa, occorre partire dalla lucida affermazione di Giacomo Noventa che ci ricorda che «il fascismo non fu un errore contro la cultura italiana ma un errore della cultura italiana».

Lo stesso si può dire per ciò che è accaduto dopo la Liberazione nell’assestamento a sinistra di gran parte degli intellettuali. Altro spazio non c’era, se non per personalità pittoresche come Giovanni Guareschi (arrestato per vilipendio al capo dello Stato, Luigi Einaudi, e per diffamazione al capo del Governo, Alcide De Gasperi). Il caso Guareschi è unico e paradossale nel panorama culturale italiano, tanto più in quanto si manifesta in termini estremi nell’Italia democratica, ma la sua condanna sembra espressa in tempi di dittatura. È un segnale significativo anche perché si incrocia con un’altra figura che ha pagato la sua libertà, senza alcuna forma di vittimismo, non con il carcere ma con la morte, dopo una carriera luminosa e mai riducibile al potere: Pier Paolo Pasolini. Pur tanto diversi, insieme, nel 1963, realizzarono il film La rabbia. L’opera è divisa in due parti: la prima curata da Pier Paolo Pasolini, la seconda da Guareschi. Film molto particolare, è essenzialmente un documentario in bianco e nero, montato con materiale di repertorio tratto dai cinegiornali e con fotografie su un interrogativo: «Perché la nostra vita è dominata dalla scontentezza, dall’angoscia, dalla paura della guerra, dalla guerra?». Il film venne travolto dalle polemiche, Pasolini ritirò la firma. Rapidamente tolto dalla circolazione, fu dimenticato per decenni.

La parabola di Pasolini, che è all’origine di questa mostra, è esemplare proprio perché profondamente contraddittoria. Il suo inesauribile successo, la sua attualità, a quasi cinquant’anni dalla morte, deriva proprio dalla sua condizione di eretico. E, mentre Moravia, con una parabola più lunga e una affermazione e un’influenza pari nella società italiana degli anni Sessanta e Settanta, è tramontato e dimenticato, Pasolini continua a essere presente e stimolante in forza delle sue stesse contraddizioni. La sua metafora del «Palazzo» è ancora attualissima e gli garantisce originalità e attualità, nonostante i riconoscimenti e il successo.

Quando, con Denis Isaia e Fabio Novembre, pensammo di mettere in scena gli Eretici, il mio progetto era far emergere personalità meno fortunate di Pasolini, altrettanto rivoltose e anche predestinate all’insuccesso, come non è il caso del secondo nome che è sembrato ineludibile, dentro e fuori questa rassegna: quello di Carmelo Bene. Sia nelle sue innovative testimonianze letterarie e teatrali, sia nelle spurie apparizioni televisive, come nel memorabile «uno contro tutti» da Maurizio Costanzo, con l’irruzione di Giordano Bruno Guerri e Guido Almansi, Bene inventa un genere letterario che contrappone il pensante (raro) al «depensante».

Rispetto a Pasolini, Bene non si confronta con la realtà ma con la finzione che governa il mondo. Il suo pensiero si afferma nel vuoto, che è una condizione epocale. Uomo del sud, Bene non ne sente la minorità conclamata nella «questione meridionale», ma la sublime superiorità, che lo porta a vivere in una dimensione onirica. Scriveva: «La nostra penisola non ha mai dato grandi fatti del Pensiero, se non, guarda caso, nel Sud. E qui, i nomi di Giordano Bruno, Giambattista Vico, Tommaso Campanella, Benedetto Croce, Giovanni Gentile ecc. La stessa lingua italiana che ci viene da Cielo d’Alcamo e Federico II. Ora dove questo pensiero “depensa” si spensiera, via via scendendo fino a Capo Leuca, lì comincia la Magna Grecia. A sud del Sud. La Magna Grecia è il “depensamento” del pensiero del Sud. È il Sud in perdita. Il suo guadagno. Anche se umiliato, oltraggiato, vilipeso, dalla sciagurata inflazione consumistica, è ancora qui. In questo sud del Sud è nato il più grande santo tra i santi, colui che eccede la santità stessa: Giuseppe Desa da Copertino. A questo Sud azzoppato, non resta che volare».

Io ricordo, Carmelo, vecchio, in un ritorno nella sua città, Campo Salentina, sputare in un occhio a un giovane disoccupato che gli chiedeva aiuto. Non era superbia, non era disprezzo, era indignazione. Con questi due campioni, in una dimensione sublime, si poteva aprire e chiudere la mostra sull’eresia. Ma umiltà e conoscenza ci hanno indotto a indagare nei luoghi più remoti, e a uscire dalla letteratura e dal teatro per tornare alla pittura, dove ci aspettavano superbi e dimenticati artisti, il cui genio era nel vivere in uno stabile altrove fuori del mercato, fuori delle tendenze, fuori delle mode.

Ecco allora riapparire Mattia Moreni, Giannetto Fieschi, Sergio Vacchi. E poi, al limitare del mondo contadino, nei confini del manicomio, Piero Ghizzardi e Carlo Zinelli. Senza fortuna ma immersi in un sogno, come non furono neppure i surrealisti, Lorenzo Alessandri ed Enrico Colombotto Rosso. In un secolo di sperimentazione, l’eresia è anche dentro la musica, nella personalità tormentata di Sylvano Bussotti, come un labirinto di immagini e suoni da cui è impossibile uscire. Insomma, venite a Rovereto per perdervi.

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