Con la cosiddetta «transizione ecologica» e con le installazioni per energie alternative si moltiplicano i pericoli per questo patrimonio dell’Italia. Che neanche la Costituzione spesso riesce a tutelare.
È arrivato il momento di richiamare gli italiani alla difesa di ciò che di più sacro loro resti. E per poco, ancora, tra fiumi di retorica e semplificazioni che sembrano far vacillare il primato estetico del paesaggio. Del paesaggio italiano. Sembra che a nessuno importi più di quello che, tra pittoresco e sublime, nella pittura italiana da Giotto a Piero della Francesca, ai maestri italiani e stranieri a Roma tra Seicento e Ottocento, da Domenichino a Jean-Baptiste Camille Corot e ancora, in tempi più vicini a noi, da Antonio Fontanesi a Giorgio Morandi, ha rispecchiato nella natura e nei boschi uno stato d’animo, stabilendo il valore estetico del paesaggio. Esso è stato assorbito in una proterva concezione ecologica che ha cancellato emozioni e visioni. È stato variamente sconvolto intorno alle città dalla speculazione selvaggia iniziata a fine anni Cinquanta quando, presentendo ciò che si rischiava di perdere, nasce Italia Nostra. Ora qualunque area di pura natura può essere aggredita per cancellare definitivamente anche il ricordo della bella Italia.
La minaccia del progressivo slittamento da «paesaggio» ad «ambiente», a «transizione ecologica» è perfettamente intesa da un uomo di Stato e di legge come Paolo Carpentieri in un saggio pubblicato il 4 maggio del 2021 sul sito Giustizia insieme: «Sulla premessa della ancora valida – ma non da tutti condivisa – distinzione giuridica tra “ambiente” e “paesaggio” ci si domanda se l’idea della “transizione ecologica” (oggi inveratasi nella non rischi di “fagocitare”, nell’inseguimento di chimerici obiettivi su scala “globale” di lotta ai gas climalteranti, la funzione (naturalmente “locale”)di tutela del paesaggio, presa nella trappola logica del “pensare globale – agire locale” (lo slogan degli ambientalisti industriali), in forza della quale si sacrifica qui e ora, concretamente e attualmente, la bellezza dei paesaggi italiani, in nome di una speranza di riduzione su scala globale – eventuale, indiretta, futura e incerta – dei gas a effetto serra, e dietro la quale agiscono in realtà molto concreti e potenti interessi economici locali delle imprese del settore (finanziati con lauti incentivi statali, a carico della finanza pubblica e delle bollette dei consumatori)».
Carpentieri ha inteso perfettamente la minaccia: «L’ambientalismo industriale della transizione ecologica sopraffà e annulla la tutela paesaggistica, che a essa obiettivamente si contrappone, poiché i pannelli fotovoltaici nelle campagne, le pale eoliche, le dighe del micro-elettrico, gli impianti a biomasse, raramente vanno d’accordo con la tutela del paesaggio». È bensì vero – e purtroppo lentamente dissolto – che «per evidenziare questa radice culturale» della nozione di paesaggio è ricorrente il richiamo della lettera di Francesco Petrarca del 1336 sull’Ascesa al Monte Ventoso, una delle prime attestazioni di nozione autonoma di «paesaggio». Altrettanto comune è in tal senso il richiamo degli affreschi del Palazzo pubblico di Siena (di Guidoriccio da Fogliano, attribuito a Simone Martini, e dell’Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti).
D’altra parte quest’idea di paesaggio ha, in era cristiana, la sua consacrazione nel Cantico delle Creature di San Francesco. Ma la numinosità e la sacralità del paesaggio hanno radici ben più lontane e perduranti fino all’Italia preindustriale, come osserva sempre Carpentieri: «Analoga è l’immagine dei campi elisi della cultura greca, come analogo è l’atteggiamento spirituale sotteso al culto, diffusissimo in tutta l’antichità greca e romana, dei boschi sacri a ninfe o altre divinità, un’idea, un modo di essere dello spirito che ha ricevuto successive elaborazioni poetiche e che si può compendiare sotto il nome riassuntivo del mito dell’Arcadia, che ritroviamo in Esiodo, poi in Virgilio, in Ovidio e in tanti altri poeti dell’antichità e, risalendo nei secoli, fino al suo ritorno rinascimentale, nel romanticismo, nello spirito dei viaggiatori del Grand Tour e nelle scuole dei paesaggisti dell’Ottocento (dalla maniera del paesaggio ideale e del “ruinismo” di Claude Lorrain e Nicolas Poussin alla scuola di Barbizon in Francia, da Caspar David Friedrich a Carl Blechen in Germania, da Constable e Turner e dai Preraffaelliti in Inghilterra ai macchiaioli e divisionisti in Italia».
Oggi più niente di tutto questo, se non nel richiamo etico di associazioni come Italia Nostra e Wilderness. Sicuramente il settore che ha dato luogo a maggiori conflitti tra ambiente e paesaggio e che rende più immediatamente percepibile la diversità di approccio di questi due campi di materia, confinanti, ma distinti, è quello dello sviluppo degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili: eolico, fotovoltaico, biomasse, mini-idroelettrico. Soprattutto l’eolico ha generato forti conflitti e vede normalmente su fronti opposti i difensori del paesaggio (soprattutto del paesaggio appenninico) e i difensori della lotta al mutamento climatico, che oggi si chiama «decarbonizzazione».
Ma questo discorso vale anche per il fotovoltaico quando, anziché essere realizzato su gray field, su aree industriali, su capannoni aziendali, su aree già impermeabilizzate, aggredisce terreni verdi sottraendoli all’agricoltura e sostituisce ai girasoli o ai campi di grano ettari di pannelli fotovoltaici. Non ci sono limiti alla menzogna e all’ipocrisia di Stato. Ed essa chiama complici dal mondo accademico a quello delle Soprintendenze e perfino nell’associazionismo. Mai il paesaggio fu violato più che in questi anni proprio dall’ultima conferenza nazionale del 1999 quando l’Italia divenne il territorio di conquista in un patto invincibile tra Stato e mafia, l’unica trattativa reale, per multinazionali spesso di incerta ragione sociale attive nel campo delle energie rinnovabili, in particolare dell’eolico e del fotovoltaico.
Lo sconvolgimento del paesaggio ha investito prevalentemente le regioni più povere e più deboli, in particolare quelle centromeridionali. E ha un bel dire il cardinal Gianfranco Ravasi: «Pose l’uomo bel giardino per coltivarlo e custodirlo»: quel giardino è stato sconvolto e mai come oggi la creazione di Dio è stata violata e stuprata con la complicità dello Stato e dell’Europa.
Il ministro Dario Franceschini non ha visto né sentito, tant’è che ha comicamente sottolineato come la sua riforma abbia contribuito ad aumentare la tutela del paesaggio con le istituzioni delle soprintendenze uniche. Non una parola sul fenomeno terrifico, come una metastasi, dei parchi eolici che hanno sconvolto per sempre i paesaggi più belli di Puglia e di Sicilia. Ed era inutile aspettarsi, anche dai più illustri tutori del patrimonio artistico, una denuncia. Come se non avessero gli occhi, come se i problemi fossero altrove.
Si è agitato in questi tristi anni solo Oreste Rutigliano, già presidente di Italia Nostra, che conosce meglio di chiunque la questione e ha combattuto con me e con pochi amici tempestose battaglie. A noi si deve la salvezza del sito di Sepino con la mirabile città romana di Altilia. Ora si combatte per Ferento e per Tuscania, nella minacciata Tuscia. A difendere il paesaggio sono stati Gian Antonio Stella e Carlo Vulpio, che quelle, come molte altre vicende conoscono bene, e che sfidano con disprezzo quei sepolcri imbiancati.
Eccoci arrivati alla mostruosa «Transizione ecologica», il De profundis sul paesaggio. Ma, dopo tanti silenzi e tante violenze, oggi finalmente si alza severa la voce del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, consapevole che non ci può essere transizione ecologica senza rispetto per la nostra ricchezza culturale e paesaggistica, e durissimo: «Gli insulti al paesaggio e alla natura, oltre a rappresentare un affronto all’intelligenza, sono un attacco alla nostra identità… Quante volte abbiamo ascoltato il vocabolo “bellezza” associato a “Italia”. Per dare profondità a questo straordinario abbinamento di parole occorre fare ricorso al senso che i nostri Padri costituenti seppero dare a una terza parola: cultura. Accanto alla cultura c’è il valore della ricerca, del paesaggio, del patrimonio storico e artistico, tutti beni da promuovere e tutelare».
