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Per i manifestanti di Cuba nessuna genuflessione

Per i manifestanti di Cuba nessuna genuflessione

L’editoriale del direttore

Leggere che Enrico Letta, il campione dei progressisti, ha invitato gli azzurri a inginocchiarsi a Wembley, ma non ha rivolto una parola per la repressione che la polizia castrista sta mettendo in atto a Cuba fa riflettere.


Le hanno chiamate le Olimpiadi dei diritti, per gli atleti inginocchiati in ricordo di George Floyd, l’americano di colore che nel maggio dello scorso anno fu ucciso durante un controllo di polizia, soffocato dal ginocchio premuto sul collo da un agente. La sua morte ha dato origine al movimento Black Lives Matter e già abbiamo assistito agli Europei dei diritti, con la nazionale azzurra accusata di non essersi prostrata al pari di altre squadre. Immagino che ci saranno polemiche anche ai giochi di Tokyo, perché qualcuno aderirà alla protesta e qualcun altro no.

Non voglio negare che in America i poliziotti spesso non vadano troppo per il sottile, che l’uso della violenza in nome della legge contro la violenza in nome delle gang abbia spesso mietuto vittime innocenti e che un problema esista. Tuttavia, questo inginocchiarsi in ricordo di un uomo solo, per quanto assurto a simbolo, mi pare una genuflessione al conformismo, soprattutto quando non ci si inchina per altre e ben più gravi faccende. George Floyd era stato arrestato per aver spacciato in un negozio una banconota da 20 dollari falsa. Benché fosse disarmato, l’agente Derek Chauvin, dopo avergli messo le manette lo aveva spinto a terra e gli aveva premuto sul collo il ginocchio per nove lunghi minuti. Una morte atroce, che non trova alcuna giustificazione, ovvio. Tuttavia, che cosa c’entrano gli Europei o le Olimpiadi con Floyd? Benché l’episodio che ha portato alla sua morte sia odioso e da condannare, in America ci ha pensato la giustizia a mettere in galera il colpevole, con una sentenza che certo non può essere definita lieve. Chauvin resterà in carcere 22 anni e mezzo, più di quanto da noi rimangano dietro le sbarre gli assassini.

Ma a prescindere da ciò, che senso ha inginocchiarsi in Giappone? Si tratta di una protesta contro il razzismo, spiegano i sostenitori della genuflessione collettiva. È un modo per segnalare che il mondo dello sport prende le distanze dalle discriminazioni, in particolare di quelle contro i neri, e comunque è una scelta contro la violenza, per di più se questa è commessa dalla polizia, cioè dallo Stato. Scopi nobili, dunque.

Però, curiosamente ci si prostra se a uccidere un uomo è un agente del Minnesota, ma non si fa un plissé se la repressione è opera della polizia castrista. Nei giorni scorsi a Cuba sono scese in piazza migliaia di persone, che al grido di «libertà», «abbasso la dittatura», «a morte il comunismo» hanno marciato all’Avana e in altre venti città. Il regime ha schierato le forze dell’ordine per impedire le manifestazioni e un uomo è morto, mentre centinaia sono stati picchiati, feriti, arrestati. Ma la rivolta, scatenata dalla fame, dalla povertà, dal Covid, non ha colpito nessuno dei genuflessi speciali. Mentre in Italia e nel mondo tanti sono pronti a inginocchiarsi per dimostrare di condividere le ragioni del movimento Black Lives Matter, non pare che ci siano né uomini politici, né sportivi, né tanto meno intellettuali disposti a prostrarsi per sostenere la protesta dei ragazzi di Cuba.

Forse chiedere la libertà, contestare la dittatura e dichiarare la morte del comunismo guevarista affascina meno che sostenere i diritti delle minoranze di colore negli Stati Uniti? Perché dei ragazzi che cantano a squarciagola Patria Y Vida, giocando sullo slogan Patria o Morte con cui Fidel Castro guidò la guerriglia alla conquista del potere, suscita minore consenso di chi negli Usa è sceso in piazza per sostenere i diritti degli afroamericani? Eppure, se nel Minnesota c’è un cattivo rappresentato da Derek Chauvin, a L’Avana ci sono centinaia di poliziotti in assetto da guerra mandati contro manifestanti disarmati che reclamano democrazia, cibo, vaccini contro il Covid. I giovani che sfilano nell’isola chiedono la fine di una dittatura che tiene prigionieri i cubani da 62 anni, che ha impedito al Paese di crescere, a loro di curarsi, di viaggiare, di informarsi e di esprimersi. Nelle pagine interne, Paolo Manzo racconta ciò che sta accadendo, la reazione dei gerarchi sopravvissuti al Líder Maximo, gli arresti, le percosse, la fame, la povertà, la disperazione di un Paese che da anni è isolato. Ma le cronache che arrivano da Cuba non paiono commuovere nessuno.

L’isola, per molti di quelli che si inginocchiano, resta il Paradiso rosso dei Caraibi. Il sogno di una società collettivizzata contro lo strapotere delle multinazionali americane. La rivoluzione guevarista contro la restaurazione capitalista. Sarà per questo che nessuno si inchina? Certo, leggere che Enrico Letta, il campione dei progressisti, ha invitato gli azzurri a inginocchiarsi a Wembley, ma non ha rivolto una parola per ciò che sta accadendo a Cuba fa riflettere. Perché significa che qualcuno, ancora oggi, invece di cantare Patria Y Vida, come i giovani de L’Avana, preferisce le strofe di Carlos Puebla, quello che ha infiammato generazioni con «Hasta siempre comandante Che Guevara». Cresciuti con il culto del guerrigliero e della rivoluzione sperano ancora nel ritorno di una «cara presenza».

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