Com’è tradizione in Italia, anche nel gigante asiatico il lavoro nella pubblica amministrazione attrae tantissimi giovani. Evidentemente la svolta di mercato non è bastata.
La Cina sembra somigliare all’Italia dagli anni Sessanta in poi del Nocecento. Tutti alla ricerca del posto di lavoro fisso, a tempo indeterminato, discretamente retribuito, possibilmente pubblico. All’ultimo, una fonte attendibile che fornisce dati sull’economia cinese ci dice che lo stipendio di un funzionario pubblico arriva fino all’equivalente di 1.700 euro (14.000 yuan) al mese, quello di un diplomato in scienze dei computer in media a soli 6.850 yuan. Anche in Cina l’impiego sicuro al ministero conviene. Tant’è vero che quest’anno, a quello che in Italia si chiamerebbe il concorsone si sono presentati un milione e 580 mila giovani per 25.700 posizioni.
Per carità, in Cina un milione e mezzo di persone è niente, pur tuttavia il numero rivela un problema e cioè che, evidentemente, la svolta verso il mercato decretata dal Pcc (Partito comunista cinese) ha prodotto una crescita del Pil cinese senza eguali, ma non ha prodotto un’equivalente distribuzione della ricchezza soprattutto per coloro che lavorano nel settore privato e, per la maggior parte, lavorano nelle zone urbane, e si tratta anche di tutti quei giovani che man mano stanno abbandonando le zone rurali dove la povertà raggiunge i limiti di quella famosa «scodella di ferro piena di riso» di cui parlava nel XVIII secolo il filosofo dell’impero Ji Yun. Basta dare un’occhiata a qualche dato per rendersi conto di una situazione che risulta molto chiara.
Il Pil cinese cresce, in questo momento, come nessun altro al mondo. I miliardari aumentano a dismisura. La classe media, quelli che guadagnano tra 10.000 e 60.000 dollari lordi l’anno, sono 300 milioni. Essendo la Cina composta da quasi un miliardo e 400 milioni di persone, fate voi due conti su quanti possano essere al di sotto della classe media, cioè di coloro che guadagnano da zero a 10 mila dollari annui. C’è un coefficiente che misura la diseguaglianza economica nei diversi Paesi, introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini nella seconda metà del secolo scorso, che si chiama appunto il «Coefficiente di Gini», e va da zero a uno. Ebbene, la Cina raggiunge circa lo 0,5%.
Naturalmente, in questo caso, si sconta l’impossibilità di disporre di dati che possano essere giudicati attendibili (basti vedere quel che è successo a proposito del Covid) e con tutta probabilità il coefficiente è peggiore. Ma ciò che qui ci interessa di più è notare quello che oggi si chiama socialismo di mercato: un ossimoro che mette insieme ciò che in natura non sta insieme, perché il mercato dovrebbe essere lo strumento di realizzazione del socialismo – cioè dell’ideale di un’uguaglianza, se non assoluta, almeno di dimensioni ragguardevoli.
D’altronde, alla morte di Mao Zedong nel 1976, Deng Xiaoping sostenne che si sarebbe andati verso un socialismo con caratteristiche cinesi, ossia un socialismo che in qualche modo si aprisse al mercato. In effetti il mercato in Cina si è aperto eccome, basti pensare al progetto faraonico della Via della seta e all’ascesa inarrestabile della Cina sostenuta da Xi Jinping, capo indiscusso e a vita del Partito-Stato.
O basterebbe riferirsi a ciò che sta facendo in Africa la stessa Cina che ormai ha raggiunto un interscambio commerciale che due anni fa si attestava intorno ai 250 miliardi di dollari l’anno, con oltre mille imprese cinesi in quel continente, con costruzioni di infrastrutture e l’insediamento della prima base militare cinese a Gibuti. Se poi si vanno a vedere i dati sull’export, soprattutto post Covid, certo non si può dire che la svolta di mercato in Cina non ci sia stata. Quindi l’economia di mercato c’è sicuramente; ma in condizioni di lavoro che ledono i diritti umani e qualsiasi regola internazionale, e consente un costo del lavoro che lede palesemente la concorrenza mondiale.
La svolta socialista, invece, a oggi non si è vista. È pur vero che nel piano quinquennale 2021-2025 il presidente Xi Jinping ha posto come obiettivo un welfare (pensioni, istruzione, sanità…) da irrobustire per far uscire dalla condizione di povertà estrema la maggior parte dei cinesi che vivono nelle zone rurali e non nelle regioni costiere, le più ricche.
Ma tutto ciò ha da venire. Un altro dato ci offre una fotografia importante della situazione del socialismo di mercato cinese. Nel 2014 è stato introdotto il diritto alla proprietà privata, ma la terra è rimasta tutta di proprietà dello Stato. Quindi i più poveri, gli abitanti delle regioni rurali, e spesso sono anche i più anziani, sono esclusi di fatto da quell’economia di mercato galoppante che riguarda qualche centinaio di miliardari, un quinto della popolazione cinese (il ceto medio) e poco altro. Un’economia di mercato che ha in sé, contemporaneamente, i peggiori difetti del capitalismo e nessun pregio del socialismo. Non meraviglia la corsa al posto fisso nei ministeri da parte dei giovani…
