Forse per la prima volta nella storia, abbiamo a Palazzo Chigi un premier che conosce bene la macchina amministrativa. E dal quale ci si aspetta provvedimenti che tolgano le incrostazioni che ritardano ogni decisione.
Le ultime attività del Parlamento, prima della pausa estiva, sono state dedicate al dibattito sulla legge Zan, quella che dovrebbe introdurre e sanzionare con pene pesanti il reato di omofobia, alla conversione in legge del decreto Semplificazioni e alla riforma Cartabia. Il governo, oltre che a quest’ultima, si è invece dedicato alle norme per l’introduzione del Green pass, ossia del certificato vaccinale contro il Covid.
Tutti provvedimenti importantissimi, a cominciare dalla legge che porta il nome del ministro della Giustizia, senza la quale l’Europa non ci concederebbe i finanziamenti per il Piano di ripresa e resilienza economica. Per non dire poi del decreto Semplificazioni, a sostegno di varie categorie, o del passaporto sanitario per chiunque voglia accedere ai ristoranti o a palestre e piscine. Tuttavia, pur giudicando urgentissime le misure adottate o anche solo, come nel caso della legge Zan, abbozzate, mi permetto di rilevare che tra le decisioni trascurate ve n’è una che invece, a mio modesto parere, avrebbe dovuto stare al primo posto, soprattutto con un governo come quello guidato dall’ex presidente della Bce.
Nella sua vita precedente, prima di diventare governatore della Banca d’Italia e poi della Banca centrale europea, Mario Draghi è stato a lungo direttore generale del Tesoro, ossia un alto dirigente dello Stato, un uomo che, a prescindere dai meriti o dai demeriti personali, avremmo potuto liquidare con la definizione un po’ sprezzante di burocrate della pubblica amministrazione. Se ne parlo così, non è per mancanza di stima nei confronti del presidente del Consiglio, ma per segnalare che forse, per la prima volta nella storia del nostro Paese, abbiamo a Palazzo Chigi un premier che la macchina amministrativa, i suoi ingranaggi e anche le sue manchevolezze, li conosce bene. Proprio per questo mi sarei aspettato che, tra le prime mosse di Draghi, ci fosse proprio qualche provvedimento che togliesse agli uffici ministeriali e pubblici le incrostazioni che ingolfano e ritardano ogni decisione.
Già, perché la principale malattia che indebolisce l’Italia si chiama burocrazia, un virus che nel corso degli anni ha contagiato non solo i Palazzi della politica romana, rallentando qualsiasi riforma e spesso rendendone difficoltosa l’applicazione, ma lentamente si è esteso a tutto l’apparato dello Stato, propagandosi a quello delle Regioni, delle Province (le cito perché, a differenza di quanto comunemente si creda, esistono ancora e purtroppo costano) e dei Comuni.
Sì, il nostro è un Paese che affoga tra le scartoffie e per decisioni che altrove richiedono pochi mesi è costretto ad attendere anni, in quanto c’è sempre un ufficio che se la prende comoda, sorretto da qualche codicillo delle migliaia di leggi che ci strangolano. Volete qualche esempio? Beh, basta che leggiate l’articolo di Stefano Iannaccone e Carmine Gazzanni, che pubblichiamo a pagina 22 di questo numero di Panorama, o quello di Laura Della Pasqua dedicato alla ricostruzione dopo il sisma in Centro Italia (pagina 28). Lì troverete una piccola summa di quello che non va e di come, anche quando le opere sono finanziate, poi non vengano realizzate.
Nel primo caso, quello raccontato da Iannaccone e Gazzanni, si parla degli interventi di riqualificazione energetica degli edifici pubblici. I soldi ci sono, perché a bilancio sono stati stanziati 230 milioni, ma i fondi spesi per un piano che doveva partire nel 2015 e concludersi lo scorso anno ammontano a soli 6,8 milioni, il 2% della somma a disposizione. Lo dice la Corte dei conti, la quale rileva come dei finanziamenti messi a disposizione per le opere di risparmio energetico del ministero dell’Economia e di quello per lo Sviluppo economico non sia stato speso un solo euro. Per non parlare poi delle scuole o dei tribunali, dove neppure nel periodo della pandemia, con la Dad e le udienze online, si è registrato un avanzamento dei lavori.
Discorso analogo per la ricostruzione nelle Marche, nel Lazio, in Umbria e in Abruzzo. A distanza di cinque anni dal sisma, 7.500 persone vivono ancora nelle casette e 28.000 sono in affitto a spese dei contribuenti. Tutto ciò, mentre su 80.000 immobili lesionati solo per 5.500 sono stati aperti i cantieri, per i restanti siamo alla fase dei progetti e delle autorizzazioni. Su 138 comuni rasi al suolo, per pochi si può parlare di avanzamento dei lavori, per tutti gli altri non siamo neppure alla rimozione completa delle macerie. E dire che in cinque anni i commissari per la ricostruzione sono stati quattro e le ordinanze emesse 100. Nonostante la disponibilità dei fondi poi, come spiega Laura Della Pasqua, ci ha pensato la burocrazia a fermare tutto.
Ecco, forse prima di discutere di legge Zan e di altre cose importantissime che occupano l’attività del nostro Parlamento e impegnano anche il governo, se si vuole far correre l’Italia bisogna partire proprio dai ministeri e dagli uffici pubblici, ovvero dalla macchina infernale delle autorizzazioni, dei timbri e dei cavilli. Senza mettere mano a quella, a un sistema che blocca e soffoca il Paese, anche i famosi fondi europei rischiano di fare una brutta fine, fermi e inutilizzati come quelli per la riqualificazione energetica o la ricostruzione del Centro Italia. Con una differenza: rispetto a quelli che giacciono sui conti correnti dello Stato, questi soldi, se non venissero spesi entro le date stabilite, in parte diventerebbero debito, prendendo il volo. E con essi, anche tutti i sogni di gloria della rinascita italiana.
