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L’obolo dell’Arcivescovo

L’obolo dell’Arcivescovo

L’editoriale del direttore

A leggere le carte che incriminano Monsignor Angelo Becciu si ha la sensazione che i soldi dell’Obolo di San Pietro non finissero proprio nelle tasche dei poveri, ma in quelle di spregiudicati affaristi e spregiudicati monsignori.


Mi è capitata tra le mani una vecchia intervista che l’arcivescovo Angelo Becciu concesse a Panorama nel 2015. Nonostante siano trascorsi sei anni e il prelato di Pattada non sia più il numero due della Segreteria di Stato della Santa Sede, ma sia stato costretto a rinunciare alla carica di prefetto della Congregazione delle cause dei santi e pure alle prerogative cardinalizie, il botta e risposta è di stringente attualità. Soprattutto ora che il monsignore è stato rinviato a giudizio per peculato, abuso d’ufficio e subornazione di testimone, in seguito a una storiaccia di investimenti azzardati, soldi spariti e signorine affette da shopping compulsivo.

L’intervista era a cura di Stefano Lorenzetto, al quale non deve esser sembrato vero di poter torchiare l’uomo di fiducia di Papa Francesco, sottoponendolo a una raffica di domande scomode. La prima e più spinosa riguardava per l’appunto il denaro, ossia ciò che in certi ambienti ecclesiastici viene ancora considerato lo sterco del demonio. Quello degli altri, ovviamente. Di fronte all’incalzare dei quesiti del cronista, l’arcivescovo tuttavia mostrava una santa pazienza. «Il Vaticano non è un covo di ladri. Rappresentarlo così costituisce una falsità assoluta. Trovo sommamente ingiusto che i nostri dipendenti, orgogliosi di svolgere un servizio per il Papa e per la Chiesa, da qualche tempo siano arrivati al punto di doversi vergognare a dire in giro che lavorano qua dentro». Era il 31 dicembre e da quattro anni Becciu era uno dei prelati più potenti della Curia romana e, secondo le accuse che gli vengono mosse dai magistrati della Santa sede, già aveva il vizio di attingere a piene mani nelle casse vaticane per sistemare gli affari di famiglia. Lorenzetto, con straordinaria lungimiranza, chiese: «La sensazione è che cardinali e prelati utilizzino per scopi personali le donazioni dei fedeli. A cominciare dall’Obolo di San Pietro, che dipende da lei». Nella replica del monsignore, si coglieva la comprensione di un porporato di fronte alle miserie dell’uomo e dei cronisti: «Dispiace che all’esterno appaia questo. Posso assicurare che è un’immagine totalmente distorta. I giornalisti dovrebbero essere più precisi e dire che l’obolo serve per le molteplici necessità della Chiesa universale, non solo per le opere di carità in favore dei più bisognosi. Nessuno imbroglia i fedeli quando le loro elemosine vengono utilizzate per sovvenzionare le strutture ecclesiastiche. È una prassi antica».

Nel passaggio dedicato alla stampa, l’arcivescovo non ce l’aveva con Lorenzetto, ma con Gianluigi Nuzzi, collaboratore di Panorama e autore di volumi dedicati alle finanze vaticane. Infatti, Lorenzetto non si fece sfuggire l’occasione di rintuzzare la predica di Becciu citando proprio il collega: «Nuzzi sostiene che “ai poveri vengono destinati soltanto 2 euro su 10″». Il cardinale, a questo punto, schierò Papa Ratzinger, che avendo lasciato il soglio pontificio era al di sopra di ogni sospetto. «Qualche giorno fa Benedetto XVI mi ricordava come, da bambino, il 29 giugno, festività dei santi Pietro e Paolo, versasse l’offerta per l’obolo convinto che il Papa l’avrebbe usata come meglio riteneva. Tale è la certezza dei fedeli di tutto il mondo quando fanno una donazione al Santo Padre». Chiaro il concetto? I soldi per i poveri sono donati e spesi bene.

Lorenzetto, tuttavia, non si diede per vinto: «Vi viene contestato di sanare i buchi della Curia romana con l’obolo di San Pietro». Pare di vederlo il numero due degli Affari generali della Segreteria di Stato mentre allarga le braccia: «Il bilancio è pubblico, approvato dal Santo Padre e dal consiglio dei cardinali. Vi si può leggere come lo usiamo anche per ripianare i deficit di Radio Vaticana o dell’Osservatore Romano e per sostenere le nunziature apostoliche, vale a dire le rappresentanze diplomatiche della Santa sede, le quali fra l’altro svolgono un servizio indiretto verso i poveri. È tramite esse, infatti, che il Papa fa pervenire la sua carità alle popolazioni colpite da improvvise calamità naturali e provvede alla distribuzione annuale dei sussidi finanziari a favore delle chiese missionarie». Risposta sufficiente a dissipare i dubbi dei miscredenti? No, perché Lorenzetto insistette: «Nuzzi in Via crucis scrive che “la Segreteria di Stato mostra una situazione finanziaria in negativo e anche confusa”». «Falso» replicò a questo punto indignato l’arcivescovo, «La situazione è trasparente e perfettamente nota a Sua Santità». Non sfugge la chiamata in causa di Papa Francesco, così come prima era stato tirato in ballo Benedetto XVI. Il senso era chiaro: ai pontefici rendicontiamo fino all’ultimo euro. Peccato che a leggere le 487 pagine con cui l’ufficio del promotore di giustizia, ovvero l’equivalente della procura italiana, abbia chiesto il processo per Becciu e altri nove tra finanzieri, faccendieri e finte 007 in gonnella, si ha la sensazione che i soldi dell’Obolo di San Pietro non finissero proprio nelle tasche dei poveri, ma in quelle di spregiudicati affaristi e spregiudicati monsignori, i quali non si facevano scrupolo di saccheggiare il denaro da destinare alle persone che soffrono per sostenere traballanti interessi privati, tra cui un birrificio e una falegnameria in Sardegna, luogo d’origine dello stesso Becciu.

Certo, un rinvio a giudizio non è una condanna e, nonostante il codice penale vaticano sia diverso da quello di casa nostra, tutti hanno diritto a essere considerati innocenti fino a prova contraria. Ma i documenti, le testimonianze, i passaggi di denaro raccolti dai magistrati contrastano e non poco con quanto sei anni fa sosteneva il monsignore. Oltre ai soldi spariti, spesi in borsette e soggiorni in alberghi di lusso da una fantasiosa signora, oltre a un palazzo londinese pagato il doppio del valore e a strani investimenti per realizzare film su Elton John o comprare partecipazioni nell’azienda di Lapo Elkann, scelte che non paiono in linea con il culto di Santa Maria Goretti, c’è la subornazione di un testimone. Una volta scoperchiato l’intreccio di strani affari, il cardinale avrebbe provato a costringere un monsignore al silenzio, facendo intervenire il superiore del prelato che si apprestava a vuotare il sacco.

Non so, non tocca a me emettere sentenze. Penso solo al titolo dell’intervista di sei anni fa: «Non porgo l’altra guancia». Ho la sensazione che presto Becciu dovrà far proprio il messaggio evangelico: «Se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello». Ma forse il mantello è già stato lasciato.

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