Il cantante siciliano, soprannominato negli States «The Voice» (come Frank Sinatra), si confessa con Panorama in occasione del suo 50esimo compleanno e per l’uscita del nuovo album Dare. Racconta la sua vocazione di padre in un fiume di ricordi: «Dagli inizi nelle piazze di paese ai piano bar fino alla sbronza con il geniale chitarrista George Benson».
Come si riescono a gestire nove figli? Basta aver fatto una gavetta come la mia: 180 mila chilometri all’anno in auto macinando un numero impressionante di concerti. Ero una trottola che girava ininterrottamente: da Caltanissetta all’Austria, da Udine a Salsomaggiore Terme, da Pistoia a Londra e poi di nuovo a Udine» ricorda Mario Biondi, via Zoom, dalla sua casa parmense a pochi giorni dal cinquantesimo compleanno (28 gennaio) che a causa della pandemia cade nell’unico anno sabbatico della sua vita. «Ero arrivato al punto di mettere a rischio la salute pur di non saltare un concerto. D’altra parte sono fatto così: se prendo un impegno lo devo portare a termine a tutti i costi. Vengo dalla scuola di mio padre…» prosegue Biondi, che è figlio del vocalist catanese Giuseppe Ranno (alias Stefano Biondi quando saliva sul palco).
«Cantavo con lui nelle piazze siciliane, quelle vere, tra luminarie, zucchero filato e fumi di salsiccia alla griglia. Papà aveva inciso anche un paio di 45 giri per la Borgatti Records di Bologna, la prima casa discografica di Vasco Rossi. Quando gli dissi che avrei voluto guadagnarmi da vivere con la musica, mi fissò con sguardo severo e disse solo queste parole: “Sì, ma in modo professionale”».
«Dopo le esibizioni con papà mi sono messo in proprio con un repertorio che comprendeva Miguel Bosé, Luis Miguel e i primi successi di Eros Ramazzotti. Da luglio a settembre mi esibivo, millantando di essere maggiorenne, nei locali e nei club. Sette sere su sette nei tanti vituperati piano bar, quelli per cui venivo guardato non dico dall’alto in basso (la sua statura è 1,97 ndr), ma con una certa sufficienza dai musicisti più snob e fighetti: “Sai noi abbiamo una band, scriviamo canzoni originali e suoniamo rock and roll”. Peccato che con le loro geniali rock band si esibissero sì e no un paio di volte al mese per 50 mila lire a sera. Io, già a 17 anni, viaggiavo ad altri livelli, se parliamo di incassi. Salire sul palco tutti i giorni mi ha costretto a imparare a usare la voce, e cioè a cantare piano. A urlare sono bravi tutti, ma quel che fa la differenza è saper dosare l’intensità delle corde vocali» dice The Voice, il primo artista italiano di sempre a conquistare le classifiche nostrane con un repertorio nel segno del jazz, del soul e del funky.
Un’attitudine ben espressa dal suo ultimo singolo tratto dal suo tredicesimo e nuovo album, Dare, (in cui incrocia la sua ugola con quelle dei ragazzi de Il Volo): Cantaloupe Island, remake di un brano leggendario scritto dal pianista di Chicago, Herbie Hancock. Tira dritto per la sua strada Biondi, consapevole di vivere in un’era della musica dove tutto passa in un attimo: «Carriere lampo, fatte di canzoni che durano un mese, scritte da artisti che sfornano un pezzo alla settimana» sottolinea. «Avere il proprio repertorio in digitale per lo streaming non è conveniente dal punto di vista economico. Lo vedo dai resoconti. Ma questo è il tempo in cui viviamo, non si vendono più copie fisiche e i parametri del successo sono radicalmente cambiati. Oggi dà, o dovrebbe dare soddisfazione, sapere di essere il terzo o quarto artista siciliano più cliccato al mondo sulle piattaforme streaming» spiega.
Parla senza filtri, seduto a casa con alle spalle una collezione di immagini appese che raccontano una vita intera. La sua. Ricorda: «Lo scatto con il più grande produttore musicale vivente, Quincy Jones, immortala il momento in cui, orgogliosissimo, mi mostra un anello regalatogli da Frank Sinatra. Poi c’è la foto con George Benson, uno dei chitarristi più raffinati e geniali di sempre. Ero in camera in albergo a Roma quando il concierge mi chiamò per dire che Benson, seduto al bar dell’hotel che ascoltava il mio disco, voleva assolutamente incontrarmi. Passammo la notte scolando Rémy Martin. Una sbronza epocale, di quelle che non si dimenticano».
Accanto alle immagini incorniciate con le star (inclusi Renato Zero e Pino Daniele), quelle con la prole: nove figli immortalati tutti insieme e poi singolarmente. «Nove avuti da quattro compagne diverse… Il maggiore ha 23 anni e potrebbe essere tranquillamente il padre della minore che ha appena quattro mesi e si chiama Mariaetna in omaggio alle mie origini catanesi. Fatta eccezione per una figlia che vive a Padova con la madre, tutti gli altri abitano con me o non lontano da casa mia. Quello di 23 anni si è trasferito, da una manciata di giorni, proprio di fronte alla mia abitazione. Convive con una ragazza che aveva già un bambino, quindi sono anche nonno “on demand”. L’altro giorno ho preso in braccio quel cucciolotto dolcissimo… Una meraviglia» rievoca commosso.
«La mia scelta è sempre stata seguire i ragazzi da vicino, accompagnarli a scuola, andarli a prendere e condividere con le madri tutte le scelte della loro vita. Certo, quando sono in tour e torno alle quattro del mattino non è una passeggiata alzarsi alle sei e mezza… Costa fatica, ma non importa. Una figlia lavora come modella a Firenze e viaggia in continuazione, ma in questo momento la mia attenzione è rivolta a due dei maschi, un dodicenne e un tredicenne che combinano un casino dietro l’altro. Tutti i giorni. Quando prestai la voce al brigante Uncino per Rapunzel – L’intreccio della torre, il bestseller della Disney, le due pesti che allora andavano all’asilo mi dissero: “Non ci piace che tu faccia il duro nei cartoni animati perché sei un papà buono. Abbiamo dovuto spiegare ai nostri compagni che tu non sei cattivo, ma che per lavoro ti disegnano così…”».