Negli ultimi mesi, mentre la pandemia infuria in tutto il mondo, si susseguono i segnali della ricerca di supremazia militare
da parte del Dragone. E il primo obiettivo è la storica «spina nel fianco» di Pechino.
La Cina si arrocca, mostra gli aculei, fa sempre più paura. Mentre l’Occidente è sommerso dalla seconda ondata del contagio da Covid, il Comitato centrale del Partito comunista cinese ha appena lanciato il quattordicesimo Piano quinquennale 2021-2025 che ha l’ambizione di rendere la Repubblica popolare fu-qiang, cioè «ricca e potente».
Il 26 ottobre Xi Jinping, ormai consolidato nel suo ruolo di presidente a vita, il primo nella storia dopo Mao Zedong, ha arringato la folla di delegati plaudenti e spiegato che il modello di sviluppo per la «supremazia mondiale» ora è la «doppia circolazione». La Cina deve «puntare sul circuito economico interno, e solo in seconda battuta sull’integrazione con il resto del globo» ha detto Xi. «Per questo dovremo affrontare i venti avversi che vengono da fuori, e fare passi da gigante nelle tecnologie chiave il prima possibile».
Mentre il Fondo monetario internazionale conferma che nel 2020 la Repubblica popolare è l’unico grande Paese a crescere (il suo Pil quest’anno aumenterà quasi del 2%, contro crolli disastrosi in tutte le economie occidentali, e nel 2021 rimbalzerà oltre l’8%), Pechino decide la chiusura verso l’esterno e lo sviluppo dei consumi interni. Due strumenti che dovrebbero attutire i colpi della crisi globale causata dal coronavirus e calmierare la dipendenza tecnologica dagli Stati Uniti, ma soprattutto consolidare le posizioni di vantaggio nella «guerra fredda» che dal 2018 è in atto con Washington.
Del resto, lo stesso documento di lancio del Piano quinquennale parla esplicitamente di un «inevitabile peggioramento delle tensioni geopolitiche». Nel frattempo, da mesi la Cina s’è lanciata in un’inedita corsa all’accaparramento di materie prime strategiche, a partire dal petrolio e dal gas, ai minerali rari come il cobalto, fondamentale per le batterie, fino ai generi alimentari: soltanto in agosto ha acquistato un milione di tonnellate di mais.
È il tipico comportamento di un Paese che si prepara a tempi duri. E dato che nella Repubblica popolare il Covid è scomparso (vedere il riquadro a sinistra) e quindi non può essere la pandemia a far paura, c’è chi pensa ci si stia preparando a qualcosa d’altro. Così, ancora più dell’arrocco della Cina, a spaventare sono i suoi aculei.
E che aculei! Pechino ha appena puntato su Taiwan i suoi nuovi missili subsonici DF-17, con una gittata lunga 2.500 chilometri. La mossa era stata curiosamente annunciata il 18 ottobre dal Global Times, il quotidiano in lingua inglese del Partito comunista cinese che gli analisti strategico-militari statunitensi sono abituati a compulsare come il più affidabile «bollettino del regime».
Quel giorno, il Global Times aveva scritto che i vecchi missili installati sulla costa erano «già sufficienti a spazzare via la maggior parte delle principali strutture militari di Taiwan», ma aveva descritto l’imminente dispiegamento dei DF-17 nelle basi costiere di Zhejiang, Fujian e Guangdong come una mossa per «bloccare le interferenze degli Stati Uniti, del Giappone, della Corea del Sud e dell’Australia negli affari interni della Cina».
In realtà, da mesi il Global Times segnala che, alla pari di Hong Kong, Formosa è una «provincia ribelle» che dev’essere riportata sotto il controllo di Pechino, e ripete che per riannetterla «non può essere escluso l’uso della forza». Così, nel quartier generale della Cia, a Langley, nessuno s’è sorpreso quando l’organo del Pcc ha annunciato l’arrivo sulla costa dei ciclopici DF-17, presentati al mondo nella sfilata militare del primo ottobre 2019. La mossa, però, ha inevitabilmente preoccupato Washington e ha letteralmente terrorizzato Taiwan.
Il Liberty Times, quotidiano di Taipei, ha sottolineato che i DF-17 hanno un raggio d’azione che per la prima volta consentirebbe alla Cina di colpire le basi aeree di Taitung e Hualien, nella parte orientale dell’isola. Altri media taiwanesi hanno poi segnalato che l’Esercito popolare di liberazione sta dispiegando sulla costa anche i jet da combattimento «invisibili» J-20 e vi sta accumulando unità di marines e mezzi anfibi, come se davvero fosse in preparazione un’operazione di «riunificazione forzata».
I comandi costieri cinesi, inoltre, hanno ricevuto molte batterie anti-aeree S-400, prodotte in Russia: quasi che, dopo il colpo d’attacco, l’Esercito popolare di liberazione si preparasse all’inevitabile contraccolpo. È per tutto questo che il governo di Taipei ha chiesto immediati rinforzi all’alleato statunitense, e il Dipartimento di Stato ha subito permesso la vendita di sistemi d’arma difensivi, tra cui 200 missili Cruise. Pechino, ovviamente, ha condannato la mossa.
Di tutto questo in Italia non si parla, come se quel che riguarda l’aggressività militare cinese fosse un inviolabile tabù. Del resto nessun giornale italiano ha scritto che a metà giugno l’esercito della Cina ha sfondato la frontiera con l’India, nella regione tibetana del Ladakh, ed è penetrato per decine di chilometri in quello che Pechino rivendica come «territorio della Repubblica popolare» da 60 anni, quando nel 1959 Delhi dette rifugio al Dalai Lama dopo la grande rivolta del Tibet contro l’invasione cinese.
Negli scontri di giugno ci sono state decine di morti, soprattutto tra i soldati indiani, ma forse per il caos provocato dal Covid l’Occidente non ha avuto reazioni, nemmeno per le vie diplomatiche. Eppure lo scontro non è chiuso, e nell’area continuano ad affrontarsi grossi contingenti dei due eserciti.
Tamburi di guerra, peraltro, risuonavano già a fine maggio, quando il presidente Xi galvanizzava i vertici del suo esercito dal palco del Congresso nazionale del popolo, annunciando che «dopo i positivi sforzi di controllo dell’epidemia ora è necessario esplorare modi di addestramento e di preparazione alla guerra».
E l’11 settembre (una data sicuramente non scelta a caso) Hu Xijin, direttore del Global Times, ha firmato un editoriale intitolato: «China must be militarily and morally ready for a potential war» (cioè «La Cina deve essere pronta militarmente e moralmente a una possibile guerra»), dove si proclamava che «la popolazione deve avere il coraggio d’impegnarsi con calma in una guerra tesa a proteggere i suoi interessi fondamentali, e deve essere pronta a sostenerne il costo».
Due mesi fa, il quotidiano l’aveva scritto espressamente: «Gli Stati Uniti credono che noi abbiamo paura e che non siamo in grado d’impegnarci in un conflitto militare con loro. Invece, vista anche la questione sospesa di Taiwan, negli ultimi tempi il rischio che la Cina sia costretta a entrare in guerra è aumentato notevolmente».
Non per nulla, tra settembre e ottobre i caccia cinesi hanno violato per decine di volte lo spazio aereo taiwanese. Potrebbero anche essere solo scaramucce, provocazioni. A Taipei, però, i più pessimisti tra i generali pensano si tratti di test per valutare quale sia l’effettiva velocità di risposta dei loro piloti. Il mondo intanto ha altri problemi: pensa a respirare, a sopravvivere al virus. E resta a guardare.
