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Myanmar, il paese d’oro nel buco nero

Myanmar, il paese d’oro   nel buco nero

La ex Birmania è dilaniata da una feroce guerra civile tra le forze militari al potere e i ribelli in lotta per la democrazia. Il bilancio è tragico, con oltre 11 mila vittime nell’indifferenza dell’Occidente.


Piove senza sosta sul funerale del combattente Twuemua. Gli sguardi dei familiari, silenziosi, sono fissi sulla bara. È l’ennesimo caduto di un conflitto sconosciuto, qui nell’est del Myanmar. Prima dell’ultimo saluto, i compagni d’armi rinnovano il giuramento: «La vittoria sarà nostra, combatteremo per la libertà, per i nostri morti e per il futuro dei nostri figli».

Tutto è iniziato il primo febbraio 2021, quando le forze armate del Myanmar guidate da Min Aung Hlaing hanno preso il potere a poche ore dall’inaugurazione del nuovo Parlamento, hanno arrestato il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi – ex politica e Consigliere di Stato – e molti altri esponenti di spicco della National league for democracy (Nld), il partito uscito vincitore dalle elezioni del novembre 2020. È stata così spazzata via un’esile democrazia germogliata poco più di un decennio fa. Oggi, a due anni di distanza dal golpe militare, il «Paese d’oro», come viene chiamata la ex Birmania, è entrata in un buco nero. «Si trova nel mezzo di una guerra civile su più fronti» spiega a Panorama Zachary Abuza, docente al National War College di Washington ed esperto di Sud-est asiatico. «La giunta al potere ha molto meno controllo sullo Stato di quello che dice e la resistenza sta mettendo in seria difficoltà i militari». La popolazione, nonostante la sanguinosa repressione dell’esercito, dopo essere scesa in strada pacificamente ha iniziato una lotta armata senza precedenti, che vede uniti gli eserciti etnici e il People’s defence force (Pdf), braccio armato del National unity government (Nug), il governo clandestino che si è costituito dopo la presa del potere dei militari.

I gruppi etnici, Karenni, Karen, Kachin, Shan e Arakan, hanno prima dato rifugio ai dissidenti politici della Ndl e poi allestito campi d’esercitazione nella giungla per la popolazione in fuga; infine hanno ampliato il conflitto, attaccando gli avamposti del Tatmadaw – le forze armate del Myanmar – nelle aree sotto il loro controllo. Molte delle persone addestrate dai ribelli hanno ora fatto ritorno nelle città d’origine, dove compiono azioni di guerriglia e attentati.

Le proteste erano state previste sicuramente dai vertici dell’esercito ma, basandosi sul passato, questi credevano di poterle controllare in poco tempo. A differenza delle vecchie insurrezioni però in particolare quelle del 1988 e 2007, il Myanmar odierno arriva da anni di mutamenti economici e, in parte, politici. E benché i militari abbiano sempre continuato a mantenere il predominio, la popolazione si stava abituando a libertà prima sconosciute. Il ritorno improvviso di un modello dittatoriale e l’annientamento dei diritti acquisiti ha così scatenato una rivolta che sembra difficile da soffocare.

«Ci sono pesanti combattimenti nella provincia di Sagaing, a soli 20 chilometri da Mandalay, la seconda città più grande del Paese» conferma Khu Htebu, ministro dell’interno del Nug e membro del comitato centrale del Karenni national progressive party (Knpp). «La zona è stata colpita più volte dai bombardamenti dell’aviazione birmana, per l’inaspettata resitenza armata della popolazione. E mentre questo accade, la comunità internazionale si limita a guardare senza alcun intervento».

In effetti, oltre a qualche sanzione e richiamo, le grandi potenze non hanno fatto granché. La prima risoluzione, che chiede la liberazione dei prigionieri politici e la fine delle violenze, è stata approvata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu solo lo scorso dicembre. Cina e Russia si sono astenute. In passato, facendo leva sul proprio diritto di veto, Pechino e Mosca erano state pronte a bloccare qualsiasi tentativo di condannare il golpe militare.

Nel frattempo, nonostante l’ultima – e unica – risoluzione Onu, Aung San Suu Kyi è stata condannata ad altri sette anni di carcere (in totale oggi sono 33). L’ulteriore pena alla presidente della Nld, stabilita in un processo-farsa a porte chiuse, di fatto la condanna a una reclusione senza fine.

«La Cina fa il classico doppio gioco» afferma Zachary Abuza. «In questo momento non amano la giunta e forse sono anche stati infastiditi dal colpo di Stato, ma sono pragmatici e possono lavorare con i militari ai quali continuano a vendere armi. Pechino è sì frustrata dal fatto che i suoi progetti «Belt and Road» – tra cui ferrovie, strade e porti – siano tutti arenati; però non taglieranno mai i legami con il regime, sono troppo interessati alla regione».

Una delle aree cruciali è il porto di Kyauk Phyu con un indotto di autostrade, gasdotti e oleodotti che collegano lo Stato Rakhine (dove sono in corso violenti scontri) alla città cinese di Kunming, nello Yunnan, creando di fatto un percorso diverso per il petrolio che arriva dal Medio Oriente.

Nelle zone dove la resistenza armata è più decisa, le forze governative del Tatmadaw hanno risposto con bombardamenti aerei e atrocità. Come quella avvenuta nello Stato Karenni il 24 dicembre 2021 – ormai la famigerata «strage di Natale» – in cui sono stati ritrovati i corpi di 31 persone carbonizzate. «Quel massacro è stato denunciato, ma ogni giorno siamo sotto attacco dell’esercito birmano». A parlare è Dee De, il numero uno della Karenni nationalities defence force (Kndf), un gruppo armato composto da 5 mila uomini formatosi dopo il golpe. «Le nostre città sono infestate di mine, i villaggi rasi al suolo e le chiese bruciate». In questi due anni i militari birmani hanno distrutto oltre 20 edifici religiosi soltanto nello Stato Karenni, dove il 75 per cento della popolazione, a maggioranza cattolica, è sfollata nelle aree interne.

La cattedrale di San Matteo è stata addirittura data alle fiamme il 15 giugno 2022 a Dawnyaykhu, nel distretto di Pruso. Secondo il Nug, le vittime del conflitto dal primo febbraio 2021 a oggi sarebbero oltre 11 mila. Ma i numeri potrebbero essere molto più alti, perché è difficile fare una stima reale. Intanto, l’economia è al collasso. Gli sfollati sono arrivati a oltre un milione, con gravi difficoltà per reperire cibo e medicinali.

Nonostante questa situazione, la giunta continua a difende il colpo di Stato e insiste che il Myanmar abbia bisogno di un esercito al potere, per scoraggiare gli attacchi interni ed esterni e garantire che l’entità nazionale non si «disintegri»: un pericolo agitato in termini propagandistici come la principale minaccia alla sovranità nazionale. E per esibire le loro «buone» intenzioni alla comunità internazionale, i militari hanno annunciato nuove elezioni nell’agosto 2023.

«Se si terranno, non saranno democratiche e non risolveranno il problema» aggiunge Abuza. «Solo l’istituzione di una repubblica federale democratica rappresenterà la soluzione per una pace duratura che coinvolga la popolazione con i suoi vari gruppi etnici. Sono settant’anni che il Paese l’aspetta». n

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