- Lo sceicco Yassin: «I colpevoli? Cercateli in Occidente»
- Oriana Fallaci: il tabù infranto
- Bioterrorismo, il lato oscuro della rivoluzione genetica
Il fondatore e guida spirituale di Hamas non ha dubbi. E dichiara: «Noi colpiamo solo obiettivi militari».
Articolo pubblicato il 4/10/2001
Strada n. 30: una via sterrata nella squallida periferia di Gaza dove i bambini giocano tra i rifiuti e carretti tirati da asini trasportano le taniche d’ acqua potabile. Le case sono tetri edifici in blocchi di cemento, i muri gridano la rabbia e la disperazione dei palestinesi: slogan che inneggiano alla guerra santa, versetti del Corano, promesse di vendetta. Passa un corteo funebre. Uomini incappucciati sparano raffiche di Kalashnikov mentre accompagnano al cimitero il cadavere di un giovane ucciso dal fuoco israeliano. Bandiere nere della Jihad islamica e una minaccia ripetuta nei megafoni: «Siamo pronti al martirio! Aspettiamo solo l’ ordine!». A pochi passi dalla moschea, in un vicolo senza nome, la guida spirituale di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin, non ha l’ aspetto del leader di un’ organizzazione che predica la lotta armata e lancia i kamikaze al tritolo contro i civili. Paraplegico, costretto su una sedia a rotelle, fiaccato nel fisico dagli anni di isolamento nelle prigioni israeliane, risponde con un filo di voce alle domande nel piccolo salotto dove Panorama lo ha incontrato.
Qual è il giudizio di Hamas sugli attentati di New York e Washington?
«Sono stati colpiti molti civili innocenti e questo è inaccettabile. Noi non siamo d’ accordo con questi metodi».
Però Hamas è responsabile di numerosi attacchi contro civili israeliani…
«L’ esercito israeliano uccide ogni giorno i civili palestinesi con i missili, gli F-16, gli elicotteri americani Apache. Lo squilibrio delle forze è sotto gli occhi di tutti. Siamo in guerra contro un nemico molto potente, contro il più agguerrito esercito della regione: i kamikaze sono la sola arma efficace di cui disponiamo. E i nostri sono obiettivi militari».
Nella pizzeria di Gerusalemme, il 9 agosto, e prima nella discoteca di Tel Aviv sono morti decine di ragazzi, passanti, bambini. Anche loro erano obiettivi militari?
«I nostri kamikaze sono addestrati per attaccare i soldati di Israele. Ma può succedere che si facciano esplodere in luoghi frequentati da civili se tra loro individuano la presenza di militari».
Tra le vittime di Gerusalemme e di Tel Aviv non c’erano militari.
«Davvero? Ne è proprio sicuro? Io non credo».
Secondo lei, chi ha ordito le stragi negli Usa?
«Per individuare i responsabili bisogna chiedersi a chi fanno comodo: a Israele o al mondo arabo? Certamente non ai palestinesi. Il movimento islamico è sempre più forte e questo non piace ai sionisti e alla loro lobby negli Usa».
Vuole dire che dietro gli attentati ci sarebbero il Mossad e il governo di Israele?
«Ci sono molte probabilità che sia davvero così».
Hamas parteciperà alla guerra santa che intendono lanciare i talebani?
«La nostra jihad è soltanto qui, dentro i confini della Palestina, contro l’ occupazione israeliana».
Che cosa pensa di Osama Bin Laden?
«Quella negli Stati Uniti è stata un’ operazione in grande stile, pianificata da chi conosce molto bene il sistema americano. Non credo che Bin Laden abbia potuto fare tutto questo».
Come giudica il cessate il fuoco ordinato da Arafat?
«Non c’ è nessun cessate il fuoco. La repressione contro i palestinesi continua, l’ occupazione continua, le aggressioni dei coloni continuano. Non esiste alcuna tregua».
Si sente nel mirino del Pentagono e degli americani?
«Se gli Stati Uniti vogliono lottare contro il terrorismo, io non rischio di essere un obiettivo. Se vogliono lottare contro il popolo palestinese, sì. I terroristi sono coloro che occupano la nostra terra: noi non siamo terroristi, siamo combattenti per la libertà del nostro popolo».
Dunque lancerete altre operazioni contro Israele?
«Spetta all’ala militare di Hamas decidere».
I responsabili dell’ ala militare non si consultano con lei?
«Non mi chiedono consigli. Colpiscono quando pensano che sia il momento di colpire. Io mi limito a mandare dei messaggi, anche attraverso i media internazionali. E ora ritengo che qualsiasi operazione armata, in questo momento, sarebbe un’ arma a doppio taglio…»
Oriana Fallaci: il tabù infranto

Bentornata, Oriana. E non confondiamo. Lo sfogo sul Corriere di sabato è un lungo insulto, ma non all’Islam. Le generalizzazioni, così appositamente indurite e semplificate da diventare inaccettabili, hanno in realtà come obiettivo l’Italia. Sono un grimaldello per aprire la porta dell’ indifferenza di un Paese che si ama, ma alla cui passività non ci si rassegna.
In controluce si profila, infatti, un ritratto crudele: l’ Italia dei luoghi comuni scambiati per saggezza, della pavidità descritta come equilibrio, della retorica vuota passata per coraggio e, sopra ogni altra cosa, del moralismo venduto per morale. Questa Italia per Oriana Fallaci non ha colore politico: i politici che chiama «gelosi, biliosi, vanitosi» sono tali senza distinzione fra destra e sinistra. Che compaiono solo come fotocopie di ideologie «imbelli»: la trappola mortale del relativismo etico della sinistra e quella di una destra decisionista che quando arriva al governo sa dare solo una solidarietà «fondata su chiacchiere e piagnistei».
Non a caso, lei cita il più offensivo Ennio Flaiano: «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Questo è poi il grande tabù contro cui, oggi come ieri, osa discutere Fallaci. In nessun’altra maniera si spiega infatti l’antipatia sdegnosa (immediatamente rovesciatale addosso, come ci si aspettava) dell’intellighenzia italiana, specie quella di sinistra, per questa donna che è una delle grandi voci nel mondo del nostro Paese.
Un Paese in cui da 50 anni si vive invece compilando liste: fra chi è di destra e chi di sinistra e poi fra chi, dentro ciascun settore, è ancora più di sinistra o ancora più di destra. Con le vecchie ideologie che non contano più se non nell’ essere bastoni di controllo del pensiero, proprio e altrui. L’ Italia in cui viviamo è il Paese più ripiegato su se stesso che conosciamo. Ma perché è anche uno dei più conservatori dell’Occidente. La tradizione non è fonte di passione e di orgoglio, non è strumento di cambiamento, ma solo di legittimazione di poteri acquisiti attraverso spartizioni e lobby.
È il Paese in cui il mercato ha visto pochissime privatizzazioni, ma in cui ancora meno privatizzazioni sono state permesse sul piano del pensiero individuale. E che, per giustificare se stesso, si perde, in una commedia delle finzioni, in pensiero laterale, discussioni sui margini e sfumature. Su questo universo cade, certamente male, la brusca voce della toscanaccia, portando con sé il cattivo odore del mondo come è. Un mondo che richiede scelte. E che, ci ricorda Fallaci, come tutte le scelte fatte nel reale, si ridurrà a differenze esercitate con l’ accetta: «Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la jihad vincerà».
La verità di fondo che ci dice, l’ unico vero punto di tutto il suo intervento, è che mentre discutiamo in tv, scriviamo su quella scelta o l’ altra del governo, litighiamo sulla democrazia, stiamo esercitando al massimo il nostro privilegio di occidentali. Nessun privilegio è infatti più grande di quello di poter tirarsi fuori con un «né con i talebani, né con gli Usa». Qualcuno, tanto, in prima linea ci andrà e difenderà anche chi si è sfilato. Come successe quando si invocò un identico «né con lo Stato né con le Br».
Un atteggiamento che, se si ricorda bene, fu condiviso da molte più aree politiche che non la sinistra extraparlamentare di allora: cattolici e intellighenzia progressista tra gli altri. Con solo l’ allora Pci in prima linea, tra improperi generali. Sarà dunque anche per questa generale tendenza a stare ai margini che noi lettori non riusciamo ancora ad avere risposte, nonostante quelle molto infastidite fornite a Oriana Fallaci da onesti intellettuali e giornalisti che sono fari della nostra pubblica morale, sulla questione che meno ci è chiara.
Ci si dice che in momenti come questi la storia fa dei salti imprevisti. Che da quel momento in poi bisogna umilmente rimettersi al lavoro. Non perdersi nella vendetta, ma capire che tutto quello che sapevamo finora forse non ci serve più. La mia domanda allora è: il calcolo di torti (e l’ Occidente, e gli Usa, ne hanno tanti) e ingiustizie (nel mondo se ne sono esercitate all’ infinito) non si azzera forse, non precipita esso stesso in una sorta di ground zero come quello delle Torri gemelle? È la domanda che, estrema e rabbiosa, c’ era dietro l’intervento di Fallaci. Nella mia generazione non c’è memoria di un passaggio come questo. Ma gli intellettuali e i giornalisti di oggi conoscono bene due momenti in cui la storia, anche intellettuale, cambiò bruscamente direzione. Franklin Delano Roosevelt, il grande Roosevelt che oggi ricordiamo come l’uomo che ha salvato la democrazia occidentale, rappresentò la sinistra imponendo l’entrata in guerra, mentre la destra isolazionista era convinta che la decadente Europa delle aristocrazie si meritasse i suoi conflitti. Ed è forse utile anche ricordare quel confuso momento in cui, alla vigilia del grande conflitto, molti governi europei, fra cui quello inglese, rimasero convinti fino all’ ultimo che fare patti con Adolf Hitler servisse a mantenere la pace.
Il parallelo in questo caso non è fra musulmani e nazisti, ma fra patteggiamento e pace. Discorsi impopolari, quelli di Oriana, certo. Ancora una volta hanno diviso il Paese. «Isterici», «generalizzanti», «apocalittici», è stato scritto. Critiche che lei ha sentito molte volte. Ma se l’ hanno amareggiata, forse oggi può felicitarsi della verità che comunque la storia sa ristabilire: mentre molti grandi della sua generazione vivacchiano dentro rubriche con foto che sembrano tombe, la sua voce arriva al pubblico forte, chiara. E soprattutto umana.
Lucia Annunziata
Bioterrorismo, il lato oscuro della rivoluzione genetica

Per i primi dieci giorni abbiamo avuto paura di aerei commerciali dirottati e usati come missili. Ora gli americani temono una nuova minaccia, ancora più disastrosa: virus e batteri sparsi dal cielo sopra aree popolate, che infettano e uccidono milioni di persone. L’ Fbi ha riferito che, nelle settimane precedenti l’11 settembre, alcuni dei dirottatori responsabili dell’ attacco alle torri del World Trade Center avevano fatto diverse visite a un aeroporto della Florida in cui sono custoditi velivoli utilizzati per la disinfestazione.
Secondo le testimonianze dei proprietari, gli attentatori hanno fatto domande in merito alla capacità di carico, alla portata e al funzionamento di quegli aerei. L’ Fbi ha successivamente bandito il volo di tutti i 3.500 velivoli privati della nazione utilizzati per la disinfestazione, in attesa di ulteriori indagini. Nel frattempo, diverse università, tra cui quelle del Michigan, della Pennsylvania, del Clemson e dell’Alabama, hanno vietato il sorvolo dei loro stadi durante le partite di football, per paura di un attacco con armi biologiche.
A Washington, i responsabili a livello decisionale si stanno affannando per cercare di arginare l’ansia dilagante, stanziando fondi per fare scorte di antibiotici e vaccini e aggiornando le procedure di emergenza negli ospedali e nelle cliniche della nazione. Purtroppo, finora i politici, gli esperti di strategia militare e i media hanno trascurato una realtà ancora più preoccupante, che sta alla base delle nuove paure sul bioterrorismo.
Il fatto è che le nuove informazioni sul genoma recentemente scoperte e utilizzate per gli scopi commerciali dell’ingegneria genetica nei settori dell’agricoltura, dell’allevamento e della medicina sono potenzialmente convertibili nello sviluppo di una vasta gamma di nuovi organismi patogeni che possono attaccare piante, animali ed esseri umani. Inoltre, a differenza delle bombe nucleari, i materiali e gli strumenti necessari per creare agenti biologici da impiegare per scopi bellici sono facilmente accessibili ed economici: ed è perciò che questo tipo di armi viene spesso definito «la bomba nucleare dei poveri».
Un laboratorio biologico all’avanguardia potrebbe essere allestito e reso operativo con un investimento di soli 10.000 dollari e potrebbe occupare anche una stanza di soli 4,5 x 4,5 metri. L’ occorrente si limita a un fermentatore per birra, una coltura a base di proteine, un telo di plastica e una maschera antigas. Un aspetto altrettanto allarmante è rappresentato dal fatto che migliaia di studenti che frequentano i laboratori dei centri di perfezionamento postlaurea di tutto il mondo sono sufficientemente informati sulle tecniche rudimentali di utilizzo della tecnologia di clonazione e del dna ricombinante per progettare e produrre in serie armi di questo tipo.
Ironicamente, se da un lato il governo Bush manifesta una profonda apprensione per il bioterrorismo, proprio quest’estate la Casa Bianca ha stupito la comunità mondiale rifiutando le nuove proposte di intensificazione della Convenzione sulle armi biologiche. L’ ostacolo è rappresentato dalle procedure di verifica che permetterebbero ai governi di ispezionare i laboratori delle ditte di biotecnologia statunitensi. Il 40% delle aziende farmaceutiche e biotecnologiche mondiali risiede negli Usa e queste società hanno detto a chiare lettere ai negoziatori americani che non avrebbero tollerato una sorveglianza dei loro impianti, per paura del furto di brevetti e segreti commerciali.
Il fallimento delle trattative attesta l’esistenza di un nuovo, sgradevole scenario con cui nessuno di noi sembra disposto a confrontarsi. In futuro, le applicazioni distruttive della rivoluzione biotecnologica saranno altrettanto cruciali quanto quelle costruttive. La guerra biologica implica l’impiego di organismi viventi per scopi militari. Le armi biologiche possono essere virali, batteriche, fungose, protozoiche e rickettsiali. Gli agenti biologici possono mutare, riprodursi, moltiplicarsi e diffondersi su vaste aree geografiche grazie al vento, all’acqua, agli insetti, nonché alla trasmissione umana e animale.
Una volta diffusi, molti agenti patogeni sono in grado di sviluppare nicchie vitali e di mantenersi nell’ambiente per sempre. Gli agenti biologici convenzionali includono: la Yersinia pestis (peste), la tularemia, la febbre della Rift Valley, la Coxiella burnetii (febbre Q), l’encefalite equina orientale, l’antrace e il vaiolo. Le armi biologiche non sono mai state utilizzate in modo diffuso in ragione dei rischi e dei costi connessi alla lavorazione e allo stoccaggio di grandi quantitativi di sostanze tossiche, nonché a causa della difficoltà di orientare su un bersaglio la disseminazione degli agenti biologici.
Tuttavia, i progressi compiuti nelle tecniche dell’ ingegneria genetica nel corso dell’ ultimo decennio hanno reso la guerra biologica possibile per la prima volta nella storia. Le «armi geneticamente modificate», messe a punto con il dna ricombinante, possono essere prodotte in diversi modi. Le nuove tecnologie possono essere impiegate per programmare i geni affinché si trasformino in microrganismi infettivi, al fine di aumentare la loro resistenza agli antibiotici, la loro virulenza e la loro stabilità ambientale.
È possibile inoculare geni in organismi per influenzare le funzioni regolatrici che controllano lo stato d’animo, il comportamento e la temperatura corporea. Gli scienziati affermano di essere in grado di clonare tossine selettive per eliminare determinati gruppi etnici o razziali la cui costituzione genotipica li predispone a particolari tipi di malattie. L’ingegneria genetica può venire utilizzata anche per distruggere specifiche razze o specie di piante o animali domestici, nell’intento di minare l’economia di un Paese.
Le nuove tecnologie dell’ ingegneria genetica forniscono una tipologia versatile di armi che possono essere utilizzate per un’ampia gamma di scopi militari, che spaziano dal terrorismo e dalle operazioni controinsurrezionali alle azioni di guerra su vasta scala dirette contro intere popolazioni. Molti governi, tra cui gli Stati Uniti, sostengono che le loro attività belliche biologiche sono solo difensive e affermano che il Trattato sulle armi biologiche in vigore permette una ricerca difensiva.
Ma è risaputo che è virtualmente impossibile distinguere tra ricerca difensiva e offensiva nel settore. Robert L. Sinsheimer, noto biofisico ed ex rettore della University of California di Santa Cruz, scriveva alcuni anni fa nel Bulletin of atomic scientists (Bollettino degli scienziati atomici, ndt) che, a causa della natura di questa particolare categoria di sperimentazione, non esiste un modo appropriato per distinguere debitamente tra l’uso per scopi pacifici e quello per fini militari delle tossine letali. Lo studio esaustivo sulla guerra chimica e biologica condotto dall’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma concorda con l’affermazione di Sinsheimer e conclude che «alcuni metodi di produzione di vaccini sono tecnicamente molto affini alla produzione di agenti per la guerra biologica e pertanto offrono facili opportunità di conversione».
Quindi, l’attuale Convenzione sulle armi biologiche è seriamente compromessa, anche al di là della questione della verifica e dello sviluppo. Osservatori militari professionisti non sono ottimisti circa la possibilità di tenere la rivoluzione genetica fuori dalla portata degli strateghi militari. Come strumento di distruzione di massa, le armi genetiche uguagliano gli armamenti nucleari e possono venire sviluppate per una frazione del costo di questi ultimi. E ciò basta per fare della tecnologia genetica l’ arma ideale del futuro.
La notizia che l’Iraq aveva stoccato ingenti quantitativi di germi patogeni per scopi bellici ed era pronto a usarli durante la guerra del Golfo Persico ha rinnovato l’ interesse del Pentagono nella ricerca difensiva, per neutralizzare la prospettiva di un’ escalation nella corsa agli armamenti biologici. Il governo di Saddam Hussein aveva preparato quello che esso stesso aveva battezzato il «grande livellatore», un arsenale di 25 testate missilistiche con oltre 5.000 chili di agenti biologici, inclusi i germi letali del botulismo e dell’ antrace. Altri 15.000 chili di microrganismi patogeni erano stati collocati in bombe da lanciare da velivoli militari. Se i germi fossero stati effettivamente impiegati per questi scopi bellici, i risultati sarebbero stati catastrofici.
Per avere un’ idea dei danni potenziali, basta considerare l’arsenale iracheno alla luce di uno studio condotto dal governo Usa nel 1993, da cui risultò che lo spargimento di soli 90 chili di spore di antrace da un aereo su Washington avrebbe potuto uccidere 3 milioni di persone. L’ Iraq non è l’unico Stato ad avere interesse a sviluppare una nuova generazione di armi biologiche. In uno studio del 1995, la Cia riferì che 17 Paesi erano sospettati di ricercare e accumulare microrganismi patogeni per uso bellico. Tra queste nazioni vi sono l’Iraq, l’Iran, la Libia, la Siria, la Corea del Nord, Taiwan, Israele, il Vietnam, Cuba, l’India, la Corea del Sud, il Sud Africa, la Cina e la Russia.
Poiché le nozioni sulla congiunzione per incastro tra i geni divengono sempre più accessibili, è probabile che la prossima generazione sarà coinvolta in una nuova, mortale corsa alle armi biologiche. La diffusione della sperimentazione con armi prodotte per modificazione genetica, sia per scopi offensivi sia per ricerca difensiva, aumenta la probabilità che si verifichino spargimenti accidentali. Nessun laboratorio, per quanto controllato e sicuro, è esente da guasti. Disastri naturali, quali inondazioni e incendi, come pure violazioni della sicurezza, sono possibili e ineluttabili.
È inoltre altrettanto probabile che terroristi e fuorilegge ricorrano alle nuove armi genetiche per seminare la paura e il caos, nel tentativo di spingere la società ad accogliere le loro richieste. Fra qualche settimana, 143 nazioni si incontreranno a Ginevra per rivedere la Convenzione sulle armi biologiche del 1972, un trattato finalizzato a «proibire lo sviluppo, la produzione e lo stoccaggio di armi tossiche e biologiche». Negli ultimi sei anni i governi si sono incontrati varie volte nel tentativo di rafforzare i termini del trattato. Ma i negoziatori che si incontreranno a Ginevra in novembre devono comprendere la potenziale gravità della situazione e agire di conseguenza.
Innanzitutto, devono considerare la pericolosa scappatoia del trattato in vigore, che consente ai governi di impegnarsi nella ricerca difensiva quando, di fatto, gran parte di questa ricerca è potenzialmente convertibile in scopi offensivi. In secondo luogo, non bisogna permettere che l’ intento delle aziende biotecnologiche statunitensi e di altre di tutto il mondo di tutelare segreti professionali e informazioni di carattere commerciale faccia deragliare i protocolli. È ora di usare le maniere forti e agire come si deve. E di pensare che il bene della civiltà umana sia più importante degli interessi di un esiguo numero di aziende biotech.
Jeremy Rifkin
