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Hamas, terrore, denaro e potere. Ecco chi li finanzia

Hamas, terrore, denaro e potere. Ecco chi li finanzia

All’organizzazione in guerra con Israele è arrivata una quantità immensa di finanziamenti con cui avrebbe potuto rimettere in piedi Gaza. Ma li ha usati per armare sé stessa e la popolazione, tenuta in povertà sotto il suo dominio.


Oltre un miliardo di dollari. Arrivano dall’Iran, dal Qatar, dalla Fratellanza musulmana, dai nemici di Israele sparsi per il mondo. Sono i soldi impiegati per pianificare azioni terroristiche come il «diluvio al Aqsa», com’è stato ribattezzato l’attacco senza precedenti di Hamas contro il territorio israeliano dello scorso 7 ottobre. Ufficialmente, quei denari dovrebbero essere destinati per sfamare la popolazione palestinese, da sempre sotto la soglia di povertà. Invece, continuano a essere impiegati dai leader dell’organizzazione terroristica per armi sempre più sofisticate, e per sovvenzionare nella Striscia di Gaza le molteplici fabbriche di morte nascoste negli scantinati, all’interno dei tunnel sotterranei e persino nei cortili delle abitazioni dei centri cittadini, dove le operose fucine del fondamentalismo islamico sfornano razzi, kalashnikov, droni e munizioni a ciclo continuo. Non abbastanza per fare di Hamas un esercito, ma più che sufficienti ad azioni terroristiche e, adesso lo sappiamo, a ingaggiare guerre di logoramento. Un sistema consolidato che, solo negli ultimi 20 anni, ha causato decine di migliaia di morti in un fazzoletto di terra senza pace. Nell’ultima sortita, però, Hamas ha alzato il livello di scontro: forte di almeno 120 terroristi in prima linea, in un solo giorno dalle retrovie sono stati lanciati attacchi informatici, droni e qualcosa come sei-settemila razzi, che costano tra i cinque e gli ottomila dollari ciascuno. Conti alla mano, un notevole sforzo bellico che dimostra implicitamente come le risorse finanziarie dei terroristi siano in notevole aumento.

Ma quanto è costata davvero ad Hamas l’operazione «diluvio al Aqsa»? E chi ha materialmente fatto i bonifici per sovvenzionare il terrore jihadista? Sappiamo quanti soldi sono arrivati al gruppo terroristico per via digitale: negli ultimi 24 mesi, soltanto in valuta digitale nei conti collegati al governo di Gaza sono entrati dall’estero 41 milioni di dollari. Nello stesso periodo, Jihad islamica palestinese, l’organizzazione che contende la leadership del terrorismo ad Hamas (sospettata di aver lanciato il razzo che ha colpito l’ospedale battista al-Ahli) ha incassato 93 milioni di dollari in criptovalute. È noto che le monete virtuali vengano utilizzate come metodo privilegiato per reperire donazioni dall’estero: è il sistema cosiddetto della zakat, la «carità» che tutti i musulmani con un certo reddito sono obbligati a devolvere alla comunità musulmana per provvedere a chi ne ha più bisogno, secondo quanto previsto da uno dei cinque pilastri fondamentali dell’Islam.

Un sistema irrintracciabile, che non viene registrato in alcun bilancio e i cui registri contabili sono subito distrutti. Lo scorso aprile, Hamas ha cessato di ricevere raccolte fondi tramite la criptovaluta Bitcoin, in ragione di «un aumento delle attività ostili contro i donatori». Il martedì successivo all’attacco del 7 ottobre, il più grande exchange di criptovalute al mondo, Binance, ha congelato centinaia di conti associati ai terroristi palestinesi. Il motivo? Provenivano da Maan Khatib, agente di Hamas sotto copertura che vive in Malesia con cittadinanza giordana, responsabile del centro sportivo Malaysian Arena di Kuala Lumpur: dietro quelle insegne, in realtà reclutava e addestrava unità Nakba, i paramilitari che abbiamo visto in azione nel deserto israeliano quando, con i parapendii a motore, hanno compiuto strage di giovani a un rave party. Simili faccendieri, imprenditori e diplomatici con doppio passaporto varcano più volte in un anno il confine tra l’Egitto e la Striscia con borse piene di dollari. Talvolta, persino funzionari Onu. Provengono soprattutto dal Qatar e dall’Iran, e agiscono attraverso società di comodo direttamente da Israele o attraverso spedizionieri e grossisti di metalli e materiali edili che operano via mare.

Ma non serve nascondersi: il Qatar fornisce già per via legale ai dipendenti pubblici del governo di Hamas circa 100 milioni di dollari l’anno. Secondo l’agenzia Reuters, dal 2014 l’Emirato avrebbe versato nelle casse degli uomini che comandano a Gaza, «anche 30 milioni di dollari al mese», ufficialmente per il funzionamento dell’unica centrale elettrica dell’enclave e per sostenere le famiglie bisognose. Così come non è un segreto che lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, ministro degli Esteri del Qatar, incontri abitualmente il leader di Hamas Isma’il Haniyeh nella capitale Doha, dove vive in una sontuosa villa sul mare mentre il suo popolo patisce la fame. Sono loro a negoziare la cifra da destinare via via alla «causa palestinese». Di quanto parliamo? Dal 2018, ogni mese il Qatar stacca un assegno di 15 milioni di dollari: l’agenzia di stampa ufficiale del Qatar ha affermato che quel denaro va a beneficio di 27 mila dipendenti pubblici della Striscia. Ma l’impressione è che venga deviato altrove. Almeno a giudicare dalla bambagia in cui vivono personaggi come Khaled Mash’al, ex capo politico di Hamas (che ora guida l’Ufficio della Diaspora, anche lui al sicuro in Qatar); o Saleh Al-Harouri, fondatore della formazione terroristica Ezzedin al-Qassam e oggi cittadino di Beirut; o ancora Osama Hamdan, anche lui ben adagiato a Beirut, da dove gestisce i traffici con l’Iran sin dagli anni Novanta.

L’Iran, infatti, non è da meno del Qatar. Anche il nemico numero uno di Israele finanzia ufficialmente il governo Hamas per 100 milioni di dollari l’anno. Ma nel 2022 è stata scoperta una rete segreta di società d’investitori persiani che, con triangolazioni in Turchia e persino in Arabia Saudita, ha movimentato almeno 500 milioni di dollari. Dove vanno a finire questi soldi? Non certo agli ospedali palestinesi, non nelle infrastrutture, e nemmeno per le forniture di energia, visto che quella è già garantita da Israele. Teheran fornisce ad Hamas soldi, armi, ma anche know how, brevetti, escavatrici e mezzi per la costruzione delle reti di tunnel che corrono sotto la Striscia. Gli stessi dove oggi sono nascosti gli oltre 200 ostaggi israeliani, tra cui decine di bambini. È stato lo stesso leader Isma’il Haniyeh a rivelare che gli ayatollah hanno versato un totale di 70 milioni di dollari negli ultimi tempi, per aiutare Hamas a «sviluppare missili e sistemi di difesa», confermando che «l’Iran è il nostro principale donatore tra le nazioni».

Hamas spende il 55 per cento del suo budget per le forze armate, il resto per i dipendenti e le attività «coperte», e solo il 5 per cento viene realmente destinato alla popolazione. Nonostante questa pioggia di denaro a flusso continuo, infatti, il tasso di povertà per i 2,5 milioni di abitanti della Striscia resta al 56 per cento, cosicché a Gaza i ragazzini possono essere armati fino ai denti ma per loro niente scuole né ospedali, non strade asfaltate o lavori regolari. A meno che non si vogliano considerare tali la saldatura di lamiere nei sottoscala e nei tunnel sotterranei, dove gli «schiavi» di Hamas costruiscono razzi da lanciare poi in territorio israeliano: i cosiddetti Qassam lanciati regolarmente verso Israele sono razzi composti da un tubo, del propellente e una testa esplosiva, tutti made in Palestina.

Ali Baraka, un alto funzionario di Hamas stanziato in Libano, in un’intervista al canale arabo RTArabic, ha rivendicato: «Abbiamo fabbriche locali per ogni cosa, per i razzi a gittata di 250 chilometri, 160, 80 e 10 chilometri. Abbiamo fabbriche di mortai e bombe. Abbiamo fabbriche di kalashnikov e di munizioni. A Gaza stiamo producendo proiettili con il permesso dei russi». Il lavoro insomma non manca, purché sia relativo alla guerra. E i soldi arrivano ad Hamas anche da Stati Uniti ed Europa, specie da Germania, Paesi Bassi, Austria, Olanda e Italia. Denaro che la Commissione Ue e i Paesi destinano in teoria alle infrastrutture palestinesi (Hamas è considerata da Usa e Ue organizzazione terroristica), ma finiscono per lo più nelle casse di Ong dal dubbio profilo (vedere articolo pagina 26). Come dimostra l’arresto a Utrecht nel giugno 2022 di una famiglia islamica che aveva raccolto 2,6 milioni di euro tramite un’associazione benefica, e intendeva destinare ai terroristi quei proventi. In Francia e in Inghilterra è la Fratellanza musulmana a gestire in esclusiva le risorse piovute grazie all’associazionismo. In Germania, invece, i gruppi di sostegno alla jihad utilizzano un metodo più ingegnoso, legato al mercato delle auto usate: come per il traffico di droga, imbottiscono di soldi sedili e interni di veicoli e mezzi di soccorso della Luna Rossa, e poi li spediscono in Palestina via Balcani (secondo alcuni, anche da questi traffici illeciti deriverebbe la decisione del governo Meloni di sospendere temporaneamente Schengen al confine italo-sloveno). Secondo Ngo Monitor, banca dati israeliana che mappa i finanziamenti, tra il 2015 e il 2021 il governo italiano ha donato 23 milioni alla Palestina per progetti gestiti da associazioni operanti tra Israele, Striscia di Gaza e Cisgiordania. Di questi, una parte sarebbe finita in mano a soggetti privati nelle black list di Gerusalemme, per il sostegno al cosiddetto «Bds», il movimento di boicottaggio contro lo Stato di Israele. Un fiume carsico di odio e soldi sporchi, i cui effetti emergono oggi in tutta la loro virulenza.

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