La proposta di pace in Medio Oriente di Donald Trump è inaccettabile per tutto il mondo arabo. Tuttavia mette in evidenza le opportunità non colte in passato dai leader palestinesi (ma anche da quelli israeliani) per risolvere il conflitto che insanguina la regione dal 1948. Come risulta dalla mappa interattiva pubblicata qui sotto.
Claudio Laurenti – Fonti: Bicom, The New York Times
«Il piano
Trump è improponibile agli occhi dell’opinione pubblica araba, ma dovrebbe far riflettere sulla fallimentare linea politica dei palestinesi. L’approccio che hanno seguito in 72 anni di conflitto con gli israeliani potrebbe essere definito: “Una lunga sfilza di opportunità mancate, di strategie fallite e di calcoli errati”». Non usa mezzi termini Sherif al Sebaie, fellow del think tank statunitense German Marshall Fund. Lo studioso di diplomazia culturale egiziano mette il dito sulla piaga più purulenta dell’intero Medio-Oriente: il conflitto arabo-israeliano.
Un flagello che ora il presidente degli Stati Uniti vorrebbe risolvere con quello che ha definito «l’accordo del secolo». La proposta
Trump non ha sollevato indignazione solo nel mondo arabo. Il 2 febbraio, Yossi Verter, analista del quotidiano Haaretz, l’ha bollata con un titolo urticante: «Come l’accordo del secolo di Trump è diventato la barzelletta del secolo». Reazione che ricorda quella del presidente dall’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, che già il 15 gennaio ha definito la mossa di Washington «lo schiaffo del secolo».
Eppure, al di là della sua validità, il piano di
Trump potrebbe essere l’occasione giusta per riconsiderare la strategia sinora adottata da israeliani e palestinesi per risolvere il conflitto infinito che insanguina la loro terra dal 1948. L’anno in cui venne creato lo Stato di Israele segna uno spartiacque per i due popoli. Se per gli ebrei costituisce il risarcimento di un’oppressione millenaria, per la memoria collettiva palestinese rappresenta la Naqba, cioè quella «catastrofe» che indusse oltre 700.000 donne, uomini e bambini ad abbandonare le loro case per riversarsi nei campi profughi dei Paesi arabi circostanti.
Una tragedia dalla quale il popolo palestinese non si è mai ripreso, ma che forse è il momento di affrontare. Prima però è necessario capire che cosa è andato storto in questo 72 anni. Per orientarsi nei meandri delle occasioni perse,
Panorama ha interpellato alcuni addetti ai lavori. Di pari passo, ha realizzato una mappa interattiva, che mette a confronto il piano Trump con quello presentato 20 anni fa dal presidente Bill Clinton dopo il vertice di Camp David. Il paragone fra i due piani è impietoso: mentre nel 2000 i «Clinton Parameters» offrivano ai palestinesi il 94-96 per cento della Cisgiordania, oggi la quota di West Bank offerta agli arabi dal piano Trump è pari al 70 per cento.
Ma vediamo in che cosa consiste l’attuale proposta di Washington. Il piano è stato presentato da
Donald Trump il 28 gennaio 2020 alla Casa Bianca, durante una conferenza stampa con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, alla quale i palestinesi non erano stati invitati. «Dalla pace alla prosperità» è il titolo del documento, elaborato da un gruppo di lavoro guidato dal genero di Trump, l’ebreo americano Jared Kushner. «Una visione per migliorare le vita del popolo palestinese e israeliano» è il sottotitolo del progetto, che si snoda lungo 181 pagine, fra mappe concettuali, tabelle, diagrammi e appendici.
In sostanza, il piano prevede che Gerusalemme sarebbe la capitale indivisibile di Israele. Quanto ai palestinesi, potrebbero stabilire la loro capitale ad Abu Dis, un villaggio del Governatorato di Gerusalemme dell’Anp che attualmente conta 12.604 abitanti. La Cisgiordania e Gaza sarebbero collegate da un tunnel. L’intesa concederebbe poi agli israeliani la possibilità di estendere la sovranità alle colonie in Cisgiordania, chiedendo però a Netanyahu di congelare la costruzione di nuovi insediamenti per quattro anni. Al tempo stesso, assicurerebbe ai palestinesi lo stesso lasso di tempo per negoziare i dettagli dell’accordo.
L’«accordo del secolo» è stato rifiutato dall’Autorità nazionale palestinese. «Non passerò alla storia come il leader che ha svenduto Gerusalemme» ha dichiarato il suo presidente
Abu Mazen, annunciando la rottura delle relazioni con Israele e Stati Uniti. Ma ha ricevuto obiezioni anche dal fronte israeliano. Lo Yesha Council, il consiglio delle colonie ebraiche, si è per esempio espresso contro la proposta statunitense, sostenendo che non avallerà mai la nascita di uno Stato palestinese, anche se demilitarizzato. «Non possiamo acconsentire a un piano che includa la formazione di uno Stato palestinese che costituirà una minaccia per lo Stato d’Israele e una minaccia più grande per il futuro» ha spiegato il leader dello Yesha Council David Alhayani, spingendo Netanyahu a respingere il piano.
La presa di posizione dei coloni minaccia di spaccare la coalizione della destra israeliana, alla vigilia del voto del 2 marzo con il premier uscente
Netanyahu, sotto inchiesta per corruzione, frode e abuso d’ufficio, in particolare difficoltà. Anche se in realtà la posizione del premier non sarebbe così distante da quella dei coloni. Secondo il giornalista Anshel Pfeffer, Bibi starebbe facendo il gioco delle tre tavolette. «Netanyahu sostiene il piano Trump perché sa che fallirà» ha scritto Pfeffer su Haaretz. Corrispondente dell’Economist da Gerusalemme nonché biografo di Netanyahu, l’analista sostiene che Netanyahu «ha sostenuto il piano solo perché crede che i palestinesi non lo accetteranno mai».
Perché, spiega
Pfeffer, «è irrimediabilmente sbilanciato dalla parte israeliana e non sarà mai accettato da un leader palestinese che abbia rispetto di sé». Per argomentare la sua tesi, il giornalista fa un raffronto storico: «Nel 1947 lo Stato arabo proposto (dall’Onu, ndr) avrebbe dovuto comprendere il 43 per cento dell’intero territorio (la Palestina sotto il Mandato britannico, ndr). Nel 2020, lo Stato offerto ai palestinesi è all’incirca la metà di quello e sembra un formaggio svizzero, riempito di buchi delle dimensioni degli insediamenti».
Già, le occasioni perse… Riprendendo la sua analisi iniziale, l’analista egiziano
Sherif al Sebaie, che da oltre 20 anni risiede a Torino, osserva impietoso: «Quella dei palestinesi è una scia di decisioni disastrose, cominciate con il rifiuto di sedersi al tavolo dei negoziati dopo la guerra del 6 ottobre 1973. Fu un’occasione storica, grazie alla quale l’Egitto si riappropriò del Sinai, ponendo le basi per decenni di pace. I palestinesi non la colsero, preferendo affidarsi al “fronte del rifiuto” dei Paesi arabi, che al momento hanno altri problemi e priorità, come Iraq e Siria. Per non parlare di quelli che oggi considerano Israele un alleato prezioso nella lotta contro l’espansionismo iraniano e il terrorismo».
Più equidistante, ma non meno acuta, la posizione di
Paolo Zanini, un brillante ricercatore di Storia contemporanea alla Statale di Milano che ha compiuto accurati studi a Gerusalemme sui rapporti fra Israele e la Santa Sede. Zanini si concentra sul fallimento degli Accordi di Oslo, la conclusione dei negoziati condotti nel 1993 tra il governo israeliano e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina come parte di un processo di pace che mirava a risolvere il conflitto arabo-israeliano (memorabile la stretta di mano fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, il 13 settembre 1993).
«Le responsabilità dei fallimenti degli accordi di Oslo e della loro implementazione sono divise abbastanza equamente» osserva
Zanini. «Yasser Arafat perse la sua grande occasione a Camp David, nel 2000, quando rifiutò la proposta più vantaggiosa che mai un governo israeliano aveva accettato, dal 1967 in poi. Probabilmente sperando di ottenere di più in seguito o, forse, non avendo il coraggio di giungere a una pace complessiva». Non a caso Bill Clinton raccontò nelle sue memorie, My life, che dopo il vertice di Camp David, durante un incontro con Arafat, il leader palestinese gli disse: «Lei è un grande uomo». Clinton gli rispose: «Io non sono un grande uomo. Sono un fallimento e lei mi ha reso tale».
Zanini non risparmia critiche neanche a Israele: «I governi israeliani avevano invece avuto la grave responsabilità, tra il 1993 e il 1999 (anche in seguito, ma gli anni decisivi a mio parere sono quelli) di non aver bloccato, e anzi di aver implementato, i progetti di colonizzazione della West Bank, che sono la vera pietra d’inciampo a ogni pacificazione». Ma la pietra tombale alla pace fra palestinesi e israeliani è stata posta nel nuovo millennio. Prosegue Zanini: «Tutto è andato in frantumi a partire dal 2000, con lo scoppio della seconda Intifada a settembre, esplosa sull’annosa questione della Spianata delle moschee/Monte del tempio e più in generale sulla città vecchia di Gerusalemme, che assieme alla colonizzazione della Cisgiordania è il grande ostacolo alla pace».
Chi ne porta le responsabilità? «L’opportunità storica si è persa nella spirale degli attentati suicidi (il cui peso sull’opinione pubblica israeliana l’Europa ha avuto il torto di sottovalutare) e delle ritorsioni israeliane» risponde
Zanini «Anche gli accordi di Ginevra del 2003, pur essendo le più complessive trattative di pace elaborate, non sono stati altro che un esercizio di buona volontà e di buon senso. Perché non hanno coinvolto direttamente i governi in carica, ma solo un ex ministro israeliano e un ministro in carica (ma non il governo) palestinese».
Sulle macerie delle occasioni perse, divampa la disperazione dei palestinesi senza futuro. In particolar modo dei più giovani. Lo denuncia su
Foreign Policy Dalia Hatuqa in un dispaccio da Abu Dis (l’eventuale capitale palestinese), intitolato «Il piano di pace di Trump è il peggior incubo dei palestinesi». Scrive Hatuqa: «Gli Stati arabi potranno anche accettare l’iniziativa unidirezionale di Trump, ma una nuova generazione di palestinesi sempre più esplicita non permetterà ai leader regionali di rinunciare al loro diritto a una patria sovrana».
