Mentre la Russia ricatta con il gas, la Cina ha il dominio delle terre rare, di cui avremo sempre più bisogno. Ma la Ue abbandona i suoi giacimenti, per una politica ambientalista miope. Anche l’Italia possiede minerali, il cui utilizzo viene bloccato da scarsa volontà, poca ricerca e molta burocrazia.
Tutta l’attenzione è concentrata sulla guerra del gas ma un altro scontro si sta delineando, non meno duro. Ora è la Russia a tenere sotto scacco l’Europa, a breve sarà la Cina. La partita si gioca attorno al dominio dei giacimenti di minerali e terre rare necessari alla transizione ecologica. L’Europa, pur disponendo di ampi giacimenti di minerali pregiati, come litio, rame, alluminio, argento, ha preferito lasciarli sottoterra. Ha disinvestito nell’attività estrattiva, considerata sporca e cattiva, ha chiuso i centri di ricerca e lasciato che le professionalità andassero altrove. L’ambiente prima di tutto. Però adesso deve fare i conti con i costi della transizione ecologica. Di qui al 2050, per fabbricare batterie e magneti, in Europa il fabbisogno di litio aumenterà di 60 volte e di 15 quello di cobalto e grafite. E allora che si fa? O si resta dipendenti dalla Cina (e abbiamo visto cosa è successo con la Russia per il gas) o bisogna iniziare a scavare.
Era il 1992 quando Deng Xiaoping, regista della potenza cinese, disse: «Il Medio Oriente possiede il petrolio, noi le terre rare». Da allora, Pechino ha sventrato montagne, trivellato, aperto miniere e stretto accordi con i Paesi africani ricchi di risorse. Ora controlla l’industria di trasformazione globale: il 90 per cento delle terre rare e il 60 per cento del litio. Solo da poco Bruxelles ha avuto un sussulto di consapevolezza. «Litio e terre rare saranno presto più importanti di petrolio e gas, la domanda entro il 2030 sarà 5 volte maggiore. Dobbiamo evitare di diventare dipendenti come lo siamo stati per gas e petrolio» ha detto la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, nel recente discorso sullo Stato dell’Unione.
Il problema principale comunque resta: scavare. «Non so se ci sia la volontà politica di mettersi contro gli ambientalisti. Inoltre manca una mappa europea dei giacimenti. Ogni Paese tiene strette le informazioni sul proprio territorio» afferma Giovanni Brussato, ingegnere minerario, uno dei maggiori studiosi delle fonti alternative. Oggi il Vecchio continente estrae appena il 2 per cento di quanto servirà per alimentare le gigafactory di batterie per l’auto elettrica, o i magneti per le turbine eoliche, cioè litio, cobalto, nichel, grafite. Uno studio del British geological survey stima la presenza di 509 depositi di cobalto in 25 nazioni europee. Qualcuno è in attività, ma con forti limitazioni rispetto alle potenzialità.
Il Portogallo è ricco di spodumene, l’unico minerale che contiene il litio in quantità elevata, e contribuisce all’1,3 per cento della produzione mondiale. Questo materiale si trova anche in Finlandia. In Spagna, in Estremadura, la miniera di San José Valdeflorez è il secondo deposito di litio di rocce più grande d’Europa e ha attirato gli appetiti stranieri. L’australiana Infinity, quotata alla Borsa di Sydney, conta di investire 532 milioni di dollari statunitensi. Australiana è anche la Vulcan energy resources, che estrarrà litio dalle acque geotermiche nell’alta valle del Reno. Al confine tra Repubblica Ceca e Germania c’è il maggiore giacimento di roccia contenente litio conosciuto in Europa. Depositi di cobalto si trovano in Finlandia, Germania, Norvegia, e giacimenti del gruppo del platino in Svezia, Finlandia, Portogallo, Regno Unito.
«La Serbia è ricca di litio e boro, anch’esso critico per la transizione energetica, e la Norvegia di rame, ma non vengono sfruttati. La Spagna ha la maggiore riserva di oro d’Europa. Chi ha tentato di ottenere i permessi di estrazione si è scontrato con i tribunali locali che temono l’impatto ambientale» dice Brussato. «Le attività di prospezione sono concentrate in Irlanda, Spagna, Portogallo, Svezia e Finlandia ma il potenziale minerario dell’Ue resta poco esplorato e gli investimenti bassi». L’Italia dipende del tutto dai mercati asiatici. «In Liguria c’è il secondo giacimento di ossido di titanio d’Europa ma è in un parco naturalistico ipervincolato, guai a parlarne» dice Brussato.
L’attività mineraria si è conclusa alla fine anni Novanta. Secondo un censimento realizzato dall’Ispra, ci sono almeno tremila miniere dismesse, di cui un migliaio di minerali metalliferi e preziosi, che hanno ancora quantitativi interessanti di elementi indispensabili per la transizione ecologica e digitale: rame, piombo, zinco, argento e oro. Le miniere in produzione sono 75, ma nessuna per minerali metalliferi. Sono per marna da cemento (17), salgemma (7), in Toscana e Sicilia, e minerali a uso industriale (44). «All’industria ceramica sono mancati 4 milioni di tonnellate di argille provenienti dal Donbass. Se ci fosse stata una conoscenza maggiore dei nostri giacimenti sarebbe andata meglio» afferma Fiorenzo Fumanti, ricercatore del servizio geologico dell’Ispra e coordinatore del gruppo «mining» del tavolo nazionale Materie prime critiche nel ministero dello Sviluppo economico. «Alcune miniere chiuse potrebbero essere riattivate con metodiche sostenibili. Si potrebbero sfruttare gli scarti che hanno lasciato. In Sardegna ci sono 70 milioni di metri cubi di rifiuti estrattivi che possono contenere cobalto e terre rare. I depositi di fanghi di Monteponi in Sardegna sono pieni di zinco».
Fumanti indica altri casi. «Gorno, in provincia di Bergamo, racchiude uno dei principali giacimenti di zinco, piombo e argento d’Europa e in Piemonte c’è il cobalto. Rame si trova tra la Liguria e l’Emilia-Romagna, in Sardegna e Toscana, antimonio in Toscana e Sardegna. Terre rare sono segnalate in Sardegna, principale regione mineraria italiana, nella miniera di Olmedo e in località alpine, ricche di argento, nichel, oro, talco, grafite, zinco e piombo. Poi abbiamo due miniere attive di fluorite a Bracciano, nel Lazio e in Sardegna e quattro di talco. Sempre nel Lazio sono attivi tre permessi di ricerca per estrarre il litio da fluidi geotermici».
Occorre però riattivare la ricerca e ricreare un tessuto di conoscenze andato perso. Ci sono poi le lungaggini burocratiche. «I permessi di ricerca durano un paio di anni e la richiesta di concessione è sottoposta a una sequela di approvazioni di enti territoriali e alla valutazione di impatto ambientale. Per aprire una nuova miniera tra burocrazia e tempi di ricerca servono da 6 a 10 anni di tempo. Siamo in grave ritardo», conclude Fumanti. Intanto al Mise è stato attivato – a gennaio 2021 – il Tavolo materie prime critiche per definire le strategie di approvvigionamento e limitare la dipendenza straniera.Ma mentre qui si parla, altrove si scava.
