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Le terre rare del Congo

Le terre rare del Congo

Il Congo è il Paese più ricco al mondo delle materie prime fondamentali per realizzare prodotti tecnologici. Eppure nella nazione africana dilagano povertà e violenza, il prezzo che il continente è costretto a pagare per garantire la transizione ecologica al resto del mondo.


Il Congo ha tutto, eppure manca di tutto. Il paradosso della Repubblica Democratica (Rdc) è nella sua natura: pur essendo il Paese più ricco di minerali al mondo (vi abbondano oltre 1.100 materiali preziosi, le cosidette «terre rare»), il disordine sociale e istituzionale a essi collegato ne fa un inferno a cielo aperto. Il medico congolese e premio Nobel per la pace Denis Mukwege lo ha descritto bene: «Siamo uno dei Paesi più ricchi del pianeta, eppure i miei compatrioti sono tra i più poveri al mondo. L’inquietante realtà è che proprio l’abbondanza delle nostre risorse naturali è causa primaria di guerre, violenza estrema e povertà assoluta».

Infatti, per estrarre oro, diamanti, stagno, rame e persino petrolio dal suo rigoglioso sottosuolo ogni anno muoiono migliaia di persone: metà delle quali per incidenti sul lavoro e l’altra per omicidio. È questo il prezzo che l’Africa paga per la «transizione ecologica» dei Paesi capitalisti tanto dell’Occidente quanto dell’Asia, i cui mercati richiedono sempre più tecnologie alla cui base vi sono i minerali rari della Rdc.

La quotidianità di questo Paese è un continuum di stragi silenziose, guerre di poveri e conflitti all’apparenza interetnici dietro cui si nascondono spedizioni punitive: contro quei villaggi che non si piegano al volere dei signori della guerra, e contro quei «minatori artigianali» che alimentano un fervente e sterminato mercato nero, esteso sino in Cina.

Sono questi predatori che agiscono in tutto il Paese per mezzo di milizie improvvisate che fungono da forza parastatale alternativa al governo di Kinshasa e, lungo le polverose strade delle province orientali, trafficano in quantità ingenti i frutti avvelentati delle terre rare. A farne le spese è stato anche il nostro ambasciatore in Rdc, Luca Attanasio, ucciso proprio lungo una di queste vie del commercio nero, nella provincia del Kivu, insieme al carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci.

Laggiù la più rara ricchezza di questa terra si chiama coltan. Ovvero il minerale che si è reso insispensabile per il funzionamento dei più performanti microchip odierni, che ormai regolano ogni tecnologia prêt-à-porter, e invaderanno presto anche settori dell’industria pesante come l’automotive. Il coltan congolese, in tal senso, è di valore inestimabile per via della sua alta concentrazione di columbite-tantalite, che permette di ottimizzare il consumo di energia nei chip di nuova generazione, con un notevole risparmio energetico (vedi la durata delle batterie di uno smartphone).

Da qui l’alta richiesta da parte delle industrie hi-tech del pregiatissimo prodotto congolese. A lungo considerato un fratello minore del rame e del nichel, la domanda mondiale di coltan continua a crescere vertiginosamente: dal 2016 al 2019 si è passati da 90.000 a 127.000 dollari per tonnellata, che nel 2023 secondo gli analisti arriveranno a 185.000: di questi, il 35% sarà destinato all’industria per lo sviluppo di batterie per veicoli elettrici. Secondo autorevoli stime, entro il 2050 l’intero comparto automotive avrà completato la transizione verso l’elettrico. È il tanto atteso sogno della green economy, ma che al momento rappresenta soltanto un incubo per la popolazione locale.

Da tutto ciò, infatti, deriva anche una violenza senza fine: chi controlla le miniere di coltan controlla il Congo, e può influenzare tanto i governi al potere quanto i traffici internazionali dell’intera Africa centrale. E oggi a controllare queste miniere sono per lo più soldataglie e milizie armate private, che non si fanno scrupolo nello sfruttare con metodi feudali uomini, donne e bambini, costringendoli a lavorare 12 ore al giorno a mani nude e senza protezioni con mazze e picconi, in cambio di pochi dollari al mese.

Al punto che, secondo l’ultimo report di Médecins sans frontières (Msf) nella Rdc oggi si sviluppano più che nel resto dell’Africa «malattie cardiache, ai vasi sanguigni, al cervello e alla pelle, con riduzione della produzione di cellule ematiche e danneggiamento dell’apparato digerente; oltre all’aumento dei rischi del cancro, difetti genetici nella prole, fino a malattie dell’apparato linfatico e neoplasie». Il presidente Félix Tshisekedi su questo nicchia, e c’è chi lo accusa di corruzione e connivenza con le multinazionali di origine cinese (non meno del predecessore Joseph Kabila).

Il suo potere di firmare e togliere le concessioni per l’estrazione ne fa in ogni caso un garante dello status quo, e non certo un difensore dei più deboli. Così i diritti umani passano in secondo piano di fronte all’avidità del mondo industrializzato, che accetta il prezzo dell’estrazione mineraria pur di raggiungere il traguardo della transizione ecologica. Infatti l’economia di Kinshasa cresce: secondo Kristalina Georgieva, direttrice del Fondo monetario internazionale, il Congo «è una luce nella performance economica africana, poiché i prezzi alti delle materie prime e la riforma del governo ne hanno migliorato le finanze».

Al punto che il Pil nel 2022 crescerà del 6,4%, superando l’intera economia della regione, ferma al 3,7 nel 2021 e attesa al 3,8% per quest’anno. L’industria estrattiva, in tutto ciò, vede un bilancio da 6,9 miliardi di dollari (2021). Altro paradosso delle terre rare è che, a ribellarsi a questa situazione, sono solo le milizie islamiste: come le Forze democratiche alleate (Adf), branca locale dell’Isis, che prima delle festività natalizie hanno ingaggiato scontri armati con l’esercito nell’area di Beni, al confine con l’Uganda, e la notte di Natale ha compiuto un massacro in un ristorante. Le violenze nella Rdc dal 2017 a oggi hanno già causato 13.643 morti: 4.872 incidenti, 7.076 rapimenti, 6.365 omicidi. Senza dimenticare gli oltre 4 milioni di profughi. Ma tutto questo è taciuto in nome del «progresso tecnologico» verde.

Giovanni Brussato, ingegnere minerario autore del libro Energia Verde? Prepariamoci a scavare (Montaonda 2021), sostiene che la Rdc sia «uno scandalo geologico, e non solo rispetto al coltan. Anche oro, rame e cobalto hanno il loro peso nello sfruttamento incontrollato. Ogni situazione vede un diverso soggetto internazionale che, consapevolmente, autorizza l’uso crudele di ogni mezzo coercitivo pur di ottenere il necessario alla sua industria. Tesla, Google, Microsoft e i giganti del web fino al 2019 usavano batterie al litio, e per questo utilizzavano proprio il cobalto congolese, consapevoli di sfruttare i bambini per la sua estrazione. Da uno scandalo giornalistico negli Usa è seguita una causa, che però nel 2021 si è chiusa senza esito, poiché si è sostenuto che dal cobalto raffinato non era possibile risalire alla provenienza».

La Cina non è da meno. Spiega Brussato: «Il problema è che tutte le tecnologie green hanno nella Rdc il loro punto di riferimento. Soprattutto la Cina ha intessuto relazioni strette con Kinshasa. Pechino, che aveva iniziato con attività predatorie l’estrazione di minerali in Congo, oggi agisce con fusioni di società per poter affrontare meglio il mercato e darsi una parvenza di legalità: ma non si possono tacere gli aspetti corruttivi che sono stati utilizzati nel recente passato per ottenere l’esclusiva sul cobalto».

Corsa al litio

Le terre rare del Congo
Complesso di estrazione di litio nel Salar de Uyuni, in Bolivia (Getty Images).

Le riserve di litio nel mondo certificate ammontano a 80 milioni di tonnellate e la Bolivia da sola ne detiene 21, oltre un quarto del totale. Il problema però è che nel Paese andino di litio se ne estrae e produce oggi pochissimo, la miseria di 600 tonnellate l’anno, nulla rispetto alle 40.000 dell’Australia o alle 18.000 del Cile. La motivazione di questa disastrosa performance boliviana è riconducibile alle decisioni di un solo uomo «todo poderoso»: Evo Morales.

Pur non essendo più il presidente dal 2019, è ancora lui a comandare su tutto in Bolivia. Dalla produzione di foglie di coca, quadruplicata negli oltre 20 anni con lui alla presidenza del sindacato dei cocaleros, i produttori della pianta da cui si ricava un quinto della cocaina che sniffa il mondo, alla distribuzione di sussidi milionari ai suoi alleati politici.

Il litio, naturalmente, non fa eccezione ed è «cosa di Evo». Sua, infatti, l’inspiegabile decisione di nazionalizzarne la produzione 15 anni fa, con il risultato oggi davanti agli occhi di tutti, ovvero un flop colossale: attualmente c’è soltanto un piccolo impianto estrattivo di una società statale, la Yacimientos de litio bolivianos, la Ylb, che non è in grado di produrre litio di qualità su scala industriale.

Di fronte all’evidenza di tre lustri buttati via e con un mare di litio ancora da estrarre dal Salar de Uyuni, più di 6.000 chilometri quadrati di deserto salino all’interno del quale c’è «oro bianco» dal valore inestimabile, nel 2021 Morales ha cambiato idea, decidendo di mettere fine alla sua fallimentare nazionalizzazione.

L’obiettivo, chiaro, è quello di favorire però non gli interessi boliviani ma Pechino e Mosca e così, lo scorso agosto, ha scelto personalmente alcune aziende straniere con l’intento di soddisfare parte della nuova richiesta energetica green. La domanda mondiale di litio sta infatti crescendo in maniera esponenziale dopo che le principali aziende automobilistiche hanno annunciato che smetteranno di produrre veicoli a combustione interna tra il 2025 e il 2035, per concentrarsi sull’elettrificazione totale.

Quella al litio, del resto, è la batteria più efficiente attualmente disponibile sul mercato, del tutto riciclabile e con la più alta capacità di stoccaggio di energia. Il boom della domanda è stato del 12 per cento tra il 2016 e il 2020 ma entro il 2030, quando lo stock di veicoli elettrici dovrebbe essere di 244 milioni di unità, il tasso di crescita annuale di litio sarà di almeno il 38 per cento. Su otto delle compagnie selezionate per avviare progetti pilota sul litio dal Movimento verso il socialismo, il partito guidato da Evo che governa a La Paz, la metà sono cinesi.

Su tutte la Citic Guoan, partecipata direttamente dalla dittatura cinese, che si occupa di infrastrutture di reti informatiche e satellitari, telecomunicazioni, turismo, impianti chimici, estrazione mineraria e finanza. Poi c’è la Fusión Enertech, fondata nell’aprile 2015 nel distretto di Nanshan, a Shenzhen, la metropoli che permette a Pechino di controllare da vicino Hong Kong.

Da qualche anno gli uomini d’affari di questa azienda incontravano Evo e i suoi sodali, visitando sul campo le installazioni artigianali e vetuste di Ylb nel Salar de Uyuni fino a raggiungere l’accordo. Interessante anche il nome della terza compagnia cinese, la Tbea che ha il suo quartier generale a Changji, nello Xinjiang di cui tanto si parla per il genocidio degli uiguri. Leader in patria nel settore dei trasformatori, alcuni anni fa la Tbea aveva già costituito una «società mista» con la statale boliviana Ylb per l’industrializzazione delle saline di Pastos Grandes, nella regione di Potosí, e di Coipasa, al confine con il Cile.

La quarta azienda cinese scelta da Evo per sfruttare il litio boliviano è la Catl, un produttore di batterie cinese che agisce in partnership con la società cinese Molybdenum (Cmoc), specializzata nell’estrazione e nel commercio di metalli rari. Il proprietario non è uno qualsiasi bensì Robin Zeng, che ha una fortuna stimata di circa 50 miliardi di euro, tra le persone più ricche della Cina.

Dulcis in fundo, a mettere le mani sul litio boliviano ci sarà anche la Uranium one, controllata dalla Rosatom, l’azienda statale russa attiva nel settore dell’energia nucleare, uno dei maggiori produttori mondiali di uranio. Non sorprende visto che la Bolivia ne possiede riserve nella catena montuosa di Los Frailes, tra i dipartimenti di Oruro e Potosí, e nella zona precambriana del dipartimento di Santa Cruz, tra l’Amazzonia e le foreste della Chiquitania.

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