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L’affare del secolo: catturare la CO2

L’affare del secolo: catturare la CO2

Per ora stoccare l’anidride carbonica in fondo al mare negli ex giacimenti di gas rimane costoso. Ma i grandi gruppi energivori stanno investendo risorse importanti e la tecnologia diventa sempre più competitiva.


L’8 settembre 2021 verrà ricordato come una data storica nella lotta al cambiamento climatico. O almeno così sperano i fondatori della società svizzera Climeworks che quel giorno hanno inaugurato in Islanda, vicino alla capitale Reykjavik, il più grande impianto al mondo per la cattura di anidride carbonica (CO2) direttamente dall’atmosfera. Per sottolineare l’importanza dell’evento, era presente il primo ministro islandese, la signora Katrín Jakobsdóttir.

Il giorno dopo l’impianto, battezzato Orca, ha iniziato a lavorare: emettendo un leggero gorgoglio, i suoi ventilatori hanno avviato l’aspirazione dell’aria all’interno di grossi contenitori, simili a container. Là dentro l’anidride carbonica viene catturata sulla superficie di un materiale filtrante e, quando questo è saturo, la temperatura aumenta fino a 80 e 100 gradi per liberare la CO2 che a quel punto viene raccolta. Poi l’anidride carbonica viene mescolata con l’acqua e pompata sotto terra. Attraverso la mineralizzazione naturale, reagisce con la roccia basaltica e si trasforma in pietra nel giro di qualche anno.

Tutto il sistema funziona utilizzando l’energia rinnovabile prodotta dalla centrale geotermica di Hellisheiði ed è in grado di eliminare dall’atmosfera fino a 4.000 tonnellate di CO2 all’anno. «Climeworks, che ha già costruito impianti simili ma più piccoli, ha una tabella di marcia dettagliata per aumentare la cattura diretta dell’aria» spiega a Panorama una portavoce della società «ed è sempre alla ricerca di siti adatti per nuovi impianti come Orca. Uno dei prerequisiti è l’accesso all’energia rinnovabile». Per finanziare il progetto, Climeworks conta sul contributo di privati e aziende che devono ridurre la propria impronta climatica: come già hanno fatto la canadese Shopify o l’americana Microsoft.

L’idea di catturare l’anidride carbonica presente nell’atmosfera è affascinante, ma la tecnologia è ancora molto costosa e in fase primordiale: Orca elimina l’equivalente delle emissioni annuali di appena 1.800 automobili di piccola cilindrata. Invece, prendere la CO2 dove viene prodotta è una tecnologia già matura, per esempio in un’acciaieria, un cementificio, una cartiera: cioè quelle industrie che necessitano di una fornitura continua ad alta intensità energetica e non possono usare l’idrogeno o contare sulle rinnovabili. Anche lo stoccaggio di CO2 non è una novità: nell’industria petrolifera è normale usarla per immetterla nei giacimenti e ottimizzare il recupero delle riserve di idrocarburi.

Proprio da queste esperienze sono maturate le tecnologie che consentono di iniettare l’anidride carbonica nel sottosuolo solo per fini ambientali. Dal 1996 nel Mare del Nord la piattaforma norvegese Sleipner sta iniettando sotto il fondale circa un milione di tonnellate di CO2 all’anno con il solo obiettivo di evitarne l’emissione in atmosfera. Tutte attività che si sono dimostrate efficaci e sicure. Del resto non è velenosa, infiammabile o esplosiva.

La caccia alla CO2 viene presa molto sul serio dagli esperti. Ogni anno, nell’atmosfera, ne sono immesse oltre 30 miliardi di tonnellate. Se si riuscisse non solo a eliminare parte di quella prodotta dall’uomo ma anche a catturarla e confinarla sottoterra, tanti settori industriali potrebbero lavorare senza vedere a rischio il proprio futuro.

Non a caso Fatih Birol, direttore dell’International energy agency (Iea), ha detto che le tecnologie di cattura, utilizzo e stoccaggio dell’anidride carbonica (Ccus, Carbon capture utilization and storage) hanno un ruolo cruciale nella lotta al riscaldamento globale: oggi se ne eliminano 40 milioni di tonnellate all’anno e secondo la Iea dovremo salire nel 2050 a 7,6 miliardi di tonnellate. In linea con la Iea, anche le altre maggiori organizzazioni internazionali (Ipcc, Ue, Onu) hanno elaborato diversi scenari di raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione, nella maggior parte dei quali la cattura, utilizzo e stoccaggio dell’anidride carbonica hanno un ruolo indispensabile.

Ma in cosa consiste il processo della Carbon capture utilization and storage? La prima fase è la cattura, nella quale l’anidride carbonica viene separata dagli altri gas con i quali è mescolata, per esempio in seguito a un processo di combustione. Una volta divisa dagli altri gas, viene trasportata via gasdotto, via mare o via terra (su ruota o su treni) e immessa all’interno di formazioni geologiche sotterranee, come i giacimenti di idrocarburi esauriti: in questo caso si parla di Ccs (Carbon capture and storage).

Oppure può essere utilizzata in alcuni processi industriali. La Iea prevede che nel 2050 il 95% della CO2 catturata verrà stoccata in modo permanente, il restante 5% sarà destinato all’utilizzo. Oggi ci sono oltre 20 impianti commerciali di grandi dimensioni per il trattamento dell’anidride carbonica operativi nel mondo, quasi la metà realizzati negli Stati Uniti.

In Italia le emissioni di CO2 nel 2019, secondo il rapporto Ispra 2021, sono state pari a 340 milioni di tonnellate, di cui 158 provenienti dal comparto industriale. Di queste, ben il 64% vengono dai settori industriali più energivori (i cosiddetti settori «hard to abate»), che comprendono principalmente cemento, acciaio, carta, ceramiche, vetro e prodotti chimici.

Ma perché la cattura di questo gas inerte dovrebbe diventare un business? Beh, per esempio noi versiamo la Tari ai Comuni che a loro volta pagano aziende che raccolgono e gestiscono la spazzatura. Per queste imprese, i rifiuti rappresentano un’attività economica. Discorso analogo si può fare per la CO2. «Il costo delle emissioni di anidride carbonica» spiega Alessandro Puliti, direttore generale Natural resources dell’Eni, «è passato da 20 euro a tonnellate nel 2020 a 50-60 euro quest’anno. In Svizzera è arrivato a 90 euro. A questi livelli la sua cattura e lo stoccaggio diventano certamente attività economicamente sostenibili».

In una recente gara svoltasi in Olanda è emerso che questa tecnologia di «imprigionamento» è molto efficace nell’evitare l’immissione in atmosfera di grandi quantitativi di CO2 e costa più o meno 60 euro a tonnellata: ciò significa che richiede minori sussidi per essere implementata rispetto alle altre tecnologie e se il costo dei certificati supera questa asticella, si riduce o si annulla la necessità di ricorrervi.

Quali sono i protagonisti di questo settore? Le imprese interessate sono di due tipi: chi cattura l’anidride carbonica nell’impianto che la emette, e si tratta di aziende abituate a lavorare nell’impiantistica petrolchimica come Saipem, Air Liquide, Mitsubishi; e chi la trasporta e la stocca, tipicamente società dell’oil & gas come Eni, abituate ad avere a che fare con tubi e giacimenti.

C’è abbastanza spazio nei giacimenti per stoccare fino a 7 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno? Sembrerebbe di sì, basta pensare a quanto metano abbiamo estratto nella nostra storia. «Solo nell’Adriatico possiamo stoccare 500 milioni di tonnellate» sostiene Puliti «mentre nei giacimenti esauriti nel Regno Unito, dove siamo coinvolti, c’è potenziale per altri 500 milioni di tonnellate».

In questa direzione Eni ha studiato il progetto «Ravenna Ccs» che, se approvato, avrebbe una capacità iniziale di cattura e stoccaggio di circa 4 milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno, di cui una parte proveniente dalle attività industriali «hard to abate» di terzi e una parte legata alle emissioni delle attività Eni, come la produzione di energia elettrica da centrali a gas.
Si prevede che il progetto industriale sarà operativo fra la fine del 2026 e l’inizio del 2027 e verranno utilizzati alcuni giacimenti di gas in via di esaurimento che, una volta riconvertiti, non saranno mai più sfruttati per la produzione di idrocarburi. La capacità totale di stoccaggio di CO2 di questi giacimenti consentirebbe di contribuire alla decarbonizzazione delle industrie dei settori «hard to abate», non solo nell’area di Ravenna ma anche dell’intera Pianura Padana.

Inoltre la società italiana partecipa nel Regno Unito al progetto Hynet in un consorzio con industrie locali nel Nord-ovest dell’Inghilterra che prevede la cattura, il trasporto e lo stoccaggio della CO2 emessa dalle stesse e da un futuro impianto di produzione di idrogeno blu, che verrà utilizzato come combustibile alternativo per gli impianti di riscaldamento, generazione di energia elettrica e trasporto.

L’Eni sarà responsabile del trasporto e del trattamento dell’anidride carbonica all’interno dei propri giacimenti di gas a circa 30 chilometri dalla costa con una capacità di stoccaggio di circa 200 milioni di tonnellate di CO2. Insomma, catturare e immagazzinare l’anidride carbonica può diventare una delle grandi industrie del futuro. Che vede come protagoniste proprio le imprese sotto accusa dai movimenti di protesta ambientalisti. Ma sono i paradossi della lotta al riscaldamento globale.

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