Con iniziative in favore di comunità emergenti, codici di condotta per i fornitori e una continua formazione dei dipendenti, Eni ha raggiunto il primo posto in un indice che misura l’impegno e i risultati delle principali aziende al mondo.
Le aziende, soprattutto quelle di grandi dimensioni che lavorano in settori strategici e operano in numerosi Paesi, sono strutture complesse che devono conciliare diverse priorità. Tra le tante, il proprio impatto ambientale e il rapporto con le comunità dei Paesi in cui sono attive. Tale impegno è richiesto alle imprese anche dagli investitori, oggi sempre più attenti a questi temi.
Dal 2013, il Corporate Human Rights Benchmark (abbreviato CHRB) riunisce oltre 85 investitori e organizzazioni della società civile e compara ogni anno i principali gruppi globali nei settori estrattivo, agricolo, dell’abbigliamento e tecnologico, valutando le politiche, la governance, i processi e le pratiche adottate per sistematizzare l’approccio ai diritti umani e rispondere a eventuali accuse di violazioni. Una sorta di certificato di qualità, chiamiamolo così, che misura la capacità di un’impresa di gestire in maniera adeguata l’impatto delle proprie attività sui diritti umani. Riconosciuto a livello internazionale, questo indice rileva l’aderenza ai Guiding principles on business and human rights, i principi guida sanciti dalle Nazioni Unite in materia. Quest’anno Eni si è posizionata come prima tra le 200 aziende valutate dall’indice, ex aequo con una sola altra società.
Il risultato è significativo perché Eni ha ottenuto quasi il punteggio pieno dell’indice, ha staccato i suoi diretti competitor e molti altri marchi blasonati di vari comparti. C’è riuscita incrociando varie strade: affinando il processo di monitoraggio delle sue iniziative, sforzandosi di identificare con prontezza possibili rischi e incidenti di percorso, contenendone l’impatto e favorendo le correzioni in corsa. Inoltre, adottando un nuovo codice etico e uno di condotta riservato ai fornitori, ai quali chiunque deve conformarsi per poter lavorare con il cane a sei zampe. Un risultato raggiunto anche grazie a un vasto programma di formazione avviato per creare una cultura condivisa da tutte le funzioni aziendali in materia di diritti umani.
Scorrendo il rapporto «Eni for Human Rights» pubblicato dalla società, si scoprono i numeri di questa iniziativa formativa. Si arriva a quasi 26 mila ore di lezione nel 2019, più che raddoppiate rispetto al 2018 (quando erano state circa 11 mila). Gli addetti che sono stati coinvolti sono stati quasi 20 mila, mentre dodici mesi prima erano stati oltre 8 mila e nel 2017 poco più di mille. Un segnale del progressivo, massiccio investimento di risorse sul tema. Uno dei tanti elementi che ha portato Eni fino alla vetta mondiale del CHRB.
«Questo risultato conferma il nostro impegno per il rispetto dei diritti umani, integrato nel nostro percorso per una transizione equa che consenta di dare accesso all’energia a tutti, proteggendo l’ambiente e riducendo i divari esistenti tra i Paesi» ha commentato l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi.
Pochi mesi fa, a maggio, Eni è entrata anche a far parte della «Voluntary principles initiative», l’iniziativa composta da governi, organizzazioni internazionali e aziende, che promuove l’implementazione di principi volontari sulla sicurezza e i diritti umani. È una sorta di circolo virtuoso, una gara a migliorare facendo squadra in questo delicato ma cruciale campo. Il progetto ha 20 anni di storia, vede la partecipazione di Stati di tutto il mondo, dall’Argentina all’Australia, dalla Gran Bretagna agli Usa, affiancati da ong, colossi dell’energia e, nella veste di osservatori, enti indipendenti e di primo piano nell’universo della solidarietà e delle sue ricadute pratiche.
Essere attenti ai diritti umani vuol dire anche migliorare la qualità della vita delle persone nei Paesi in cui si opera, favorendone il benessere economico, oltre che sociale, e promuovendo l’uso efficiente delle risorse energetiche. Una dialettica, quella tra pensiero e azione, che Eni ha ormai saputo mettere al centro da tempo. Come con il programma «Promoting energy efficiency and clean cooking» attivato a Pemba, in Mozambico. Traduzione letterale: promuovere l’efficienza energetica e una cottura pulita, sostenibile, dei cibi. Traduzione pratica: arrivare a sostituire nelle case 10 mila fornelli tradizionali, alimentati a carbone o legna, con sistemi di nuova generazione ad alta efficienza. In tale modo si riduce la deforestazione, si diminuisce l’inquinamento, si abbassa la spesa energetica della popolazione che può utilizzare quelle risorse per l’alimentazione, l’educazione e la salute.
Un altro esempio è il progetto Lrp, che come tutte le abbreviazioni suscita qualche diffidenza burocratica, ma già da esteso suggerisce il suo potenziale, racconta la sua ambizione: sta per «Livelihood restoration plan», un piano per favorire la diversificazione dei mezzi di sussistenza. È stato attivato da Eni in Ghana, ha aiutato circa 205 nuclei familiari ad avviare piccole attività imprenditoriali, generando benefici a catena per tutta la comunità locale. C’è chi ha imparato a fare il pane, chi a produrre saponi, chi a saldare, chi a tagliare i capelli. Specializzazioni che rispondono a esigenze quotidiane irrinunciabili e perciò subito gettonate.
C’è poi Catrep, altro acronimo (stavolta indica il «Centre d’appui technique et ressources professionnelles»), abbastanza comprensibile pure a chi è a digiuno di francese: un centro che mira a combinare tecniche e risorse, ad applicarle a uno scopo. Quello di aggiornare l’agricoltura del Congo a logiche contemporanee, insegnare ai contadini a non considerarla solo come un mezzo di sopravvivenza, un veicolo per sfamare la propria famiglia, ma come uno strumento per produrre reddito da investire in beni e servizi. Così la terra alimenta il territorio, dà una spinta all’economia.
Sono solo alcuni degli esempi che descrivono l’impegno di Eni per lo sviluppo sostenibile e per i diritti umani, le attività direttamente orchestrate o propiziate dal gruppo. E ogni gesto che sembra piccolo, ha un grande impatto. È un punto di partenza. D’altronde, come sancisce la Dichiarazione universale dei diritti umani proclamata nel 1948 e ricordata da Eni nell’apertura del suo report: «Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo».
