Città vuote, economia al palo, bolla immobiliare che si sgonfia, l’industria del cinema ferma. L’emergenza Covid ha colpito duro nello Stato più ricco, con l’enclave dorata della Silicon Valley. E ora gli scontri razziali che coinvolgono anche Los Angeles possono aggravare la crisi.
Nest inoltra gli ultimi messaggi sulla chat del gruppo di lavoro, sono le disposizioni per il giorno dopo. «See u all, stay safe», è l’ultimo saluto prima chiudere il suo Mac consumato da settimane di lavoro in remoto, maratone virtuali che vengono edulcorate dall’accattivante termine di «smart working». Nest si affaccia alla finestra su North 10 avenue, tra Japantown e il Luna Park, enclave di tendenza nel cuore di San José. Fuori il silenzio domina come una sinfonia senza tempo da settimane, mesi.
Eppure questa città della California, epicentro della Silicon Valley, simbolo dell’opulenza della West Coast, era sino a qualche mese fa un polo di attrazione 2.0. Il Covid-19 ha imposto l’oblio. Nest monta su un monopattino elettrico, uno di quelli da usare con le tante app dedicate, e si lancia su Malbury Road, cerca tracce di vita. Il Flea Market è vuoto, i parchi deserti. Il Mc Enery Convention Center, dove un anno fa di questi tempi teneva banco la F8, la maxi convention di re Mark (Zuckerberg, di Facebook) è spento, svuotato di anime e circuiti. È questa l’immagine più emblematica della valle del silicio ai tempi del coronavirus. E con essa di buona parte del Golden State. Più che «Dreaming California» verrebbe da dire «California nightmare», l’incubo.
Nest, all’anagrafe Sadik Nasir, è un alfiere della «gig economy», che dopo gli studi universitari in Ivy League si è trasferito in questa parte del Paese dando alla luce diverse start-up, tra farmaceutico e logistica, come tante ve ne sono a San José: Synthekine, Ready2Nurse, Cepton Technologies.
Creature embrionali che prima o poi vengono notate e rilevate per milioni di dollari dai big di Silicon Valley, da Google a Facebook, o un po’ più su, verso Amazon e Microsoft. «E ora? Rischia di cambiare tutto» dice preoccupato per il futuro della California, risvegliata dalla lunga anestesia del virus solo dalla violenza delle dimostrazioni scatenate dall’uccisione dell’afroamericano George Floyd in seguito a un violento arresto da parte di alcuni poliziotti bianchi. Da Minneapolis, dove è avvenuto l’episodio, l’ondata di proteste ha travolto tutti gli Usa, sfociando in rivolta pilotata da gruppi antagonisti infiltrati.
A partire da Los Angeles, dove per lunghe notti i manifestanti hanno distrutto le vetrine dei negozi, dato alle fiamme e danneggiato decine di auto ed edifici, violentato i muri con scritte inneggianti alla disobbedienza con tanto di sigle sovversive come A.C.A.B., «All Cops Are Bastards» (tutti i poliziotti sono bastardi). Tanto da spingere il sindaco Eric Garcetti a dichiarare il coprifuoco e chiedere al governatore Gavin Newsom il dispiegamento della Guardia nazionale. Stesso copione a San Francisco, dove il 1° giugno un agente ha sparato a un manifestante che credeva armato – in mano aveva solo un martello – e l’ha ucciso. La California si è quindi svegliata, ma l’incubo non sembra passato, complice l’esasperazione causata da oltre due mesi di «lockdown», più di 4 mila morti e un futuro di incertezze per lo stato più ricco d’America.
Il Golden State è stato il primo a fermarsi, data anche la sua esposizione alla Cina, per contrastare il dilagare dell’epidemia riuscendo a evitare i numeri drammatici di New York. Il prezzo che sta pagando, però, è elevato. Il governatore ha rivelato che il tasso di disoccupazione stimato è oltre il 20 per cento, molto maggiore di quello nazionale del 14,7 cento. Nel giro di poche settimane il numero dei disoccupati, circa 5 milioni, ha più che raddoppiato quelli della grande crisi del 2007-2009. A Los Angeles, con gli studios di Hollywood e i parchi a tema chiusi, e gli hotel vuoti, le cose vanno peggio: il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 24 per cento, pari al picco della Grande Depressione, nel 1929. Tanto che l’ex candidato alle primarie democratiche di Usa 2020 Tom Steyer, miliardario manager di fondi di investimento e filantropo, ha parlato di «economia in caduta libera».
Quello della California è un sistema assai diversificato, ma molti dei settori che l’hanno resa così forte – turismo, istruzione, intrattenimento, alimentare – sono i più colpiti. Non sono state risparmiate neanche Napa e Sonoma Valley, i vigneti d’America. «Tutti trattengono il fiato» spiega Linsey Gallagher, presidente dell’associazione turistica Visit Napa Valley. In un recente giorno feriale, dice, di 5.500 camere d’albergo a Napa solo 328 erano occupate, e principalmente da personale medico e famiglie che si isolavano da parenti infetti. Mentre Amelia Morán Ceja, fondatrice della Ceja Vineyards, rivela che il 40 per cento delle sue entrate è scomparso senza le degustazioni: «Non è sostenibile per nessuno del settore vinicolo». E per Caroline Beteta, presidente dell’ufficio del turismo statale, «non ci sarà una piena ripresa fino a quando l’industria del turismo e dell’ospitalità non sarà in grado di tornare attiva».
Per completare il quadro spettrale, i grandi campus universitari, come Berkeley, culla della contestazione del 1969, sono deserti: del futuro non vi è traccia. Il successo economico del Golden State nell’ultimo decennio è maturato in parte anche dalla posizione dello stato come porta di accesso al Pacifico, sfruttando il dinamismo dell’Asia attraverso il commercio a Long Beach, Los Angeles e Oakland, nonché l’afflusso di lavoratori e studenti di tecnologia come Nest.
L’anno scorso poteva contare sul numero più alto di studenti internazionali di qualsiasi altro Stato, circa 160 mila, con un contributo all’economia pari a 7 miliardi di dollari. Dopo la crisi del 2008 la California ha contribuito a guidare la nazione verso la ripresa trainata dalla Silicon Valley. Ora, sarà forse lei a dover essere trainata. Aziende come Uber, Lyft e Airbnb hanno tagliato migliaia di posti di lavoro. Salesforce e Visa consentiranno ai dipendenti di lavorare da casa per mesi, Twitter e Square hanno annunciato una vera rivoluzione rendendo permanente lo smart working.
A subire il colpo più duro è San Francisco, per l’alta concentrazione di impieghi che meglio si adattano al lavoro a distanza: il 40 per cento del totale, il doppio rispetto alla media Usa, rivela Moody’s Analytics. Per Facebook per esempio, che ha sede a Menlo Park, da qui a dieci anni il 50 per cento della sua forza lavoro potrebbe essere in remoto. E poi ci sono i licenziamenti, e i prezzi alle stelle delle case, che hanno già fatto scappare molti residenti. Le autorità prevedono di perdere 3,6 miliardi di dollari di budget nei prossimi quattro anni, con un tasso di disoccupazione che pochi mesi fa era al 2,2 per cento, e ora dovrebbe attestarsi intorno al 15 fino a settembre.
«Il boom è finito, la domanda è quanto sarà profondo il crollo?», avverte Ken Rosen, presidente del Berkeley Haas Fisher Center for real estate and urban economics. Con la perdita di potere economico potrebbe esserci anche un indebolimento politico, magari a vantaggio di Donald Trump, il quale con la California, feudo democratico per antonomasia, ha un conto aperto. A causa dello scontro sul muro al confine col Messico e delle città-santuario dello Stato che proteggono gli illegali. E in ultimo, a causa del voto per posta alle presidenziali del 3 novembre che Newsom, assieme ad altri colleghi dem, sta promuovendo per ovviare alle difficoltà organizzative causate dal virus.
Il presidente su Twitter tuona contro quella che ritiene una tentata frode elettorale e così si prende il cartellino giallo del social che lo bolla come diffusore di fake news. Proprio Twitter, che ha la sede a San Francisco. Proprio dove Nest stava per andare a bussare in vista di quel salto di carriera che riteneva ormai maturo. Poi è arrivato il Covid. «Al momento non se ne fa più niente, forse nemmeno dopo» dice. Il giovane talento della «gig economy» ha ricevuto una proposta di lavoro da Bangalore, il distretto tecnologico dell’India, la Bollywood dell’hi-tech. «Quasi quasi torno nel mio Paese, Bangalore non è male gli affitti sono più bassi, e poi è rinomata per i parchi e la vita notturna. Il sogno oggi è da un’altra parte». n
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