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Partite Iva: più abbandonate che autonome

Partite Iva: più abbandonate che autonome

Sono circa 200.000 le partite Iva che hanno chiuso i battenti lo scorso anno per i ritardi nei pagamenti e lavoro svanito causa Covid. I professionisti sono allo stremo e anche la nuova Iscro, una cassa integrazione pensata per loro, pare più una beffa che un sostegno valido.


È stata presentata come una grande rivoluzione, salutata dal Parlamento come una svolta epocale, esaltata in ogni aspetto. Eppure la cosiddetta cassa integrazione per le partite Iva ha le sembianze della beffa, l’ennesimo provvedimento slogan per quei lavoratori autonomi già vessati e oggi piegati dalla pandemia da Covid-19. I numeri sono impietosi. Secondo le stime fornite da Confcommercio, circa 200.000 autonomi hanno dovuto chiudere la loro partita Iva nel 2020.

«Si tratta prevalentemente di professionisti che operano in vari settori, dalle attività scientifiche e tecniche ai servizi, passando per sport, arte e intrattenimento» spiegano dalla Confcommercio. C’è l’avvocato che ha dovuto fare i conti con la crisi: i cali di fatturato si sono abbattuti sui collaboratori. Ma non ci sono solo professionisti «tradizionali»: basti pensare a figure come i social media manager, ai grafici, ai consulenti di comunicazione che hanno perso committenti per i tagli imposti dalle aziende.

Una bomba esplosa sulle partite Iva, persi tra ritardi nei pagamenti, ora in via di smaltimento, e misure cervellotiche. Tanto che è stato necessario l’esonero dei contributi previdenziali per il 2021, il cosiddetto anno bianco fiscale. Che bianco non è, ma si annuncia nero. In questo quadro c’è stata l’introduzione di un sistema di ammortizzatori sociali. Una buona idea, ma con paletti troppo stretti.

Dal tetto massimo reddituale da miseria all’anzianità di iscrizione alla Gestione separata dell’Inps, i lavoratori dovranno fare lo slalom per accedere al beneficio. Rimettendoci di tasca propria, a causa dell’aumento delle aliquote contributive. Ovviamente a pagare dazio sono soprattutto i più giovani, quelli che hanno aperto una partita Iva qualche anno fa.

Eppure l’Indennità straordinaria di continuità reddituale e operativa, racchiusa nell’acronimo Iscro, è stata introdotta, con le migliori intenzioni, dall’ultima legge di Bilancio con una dotazione di 70 milioni di euro. Tanto che alla Camera e al Senato quasi tutti gli onorevoli si sono lanciati in elogi sperticati. Ogni lavoratore potrebbe avere un sostegno mensile variabile dai 250 agli 800 euro.

Tutto bene, allora? Mica tanto. «Dietro i titoloni, c’è il nulla. È solo una norma che serve a far dire che è stato fatto qualcosa per le partite Iva. E nei fatti aumenta solo le aliquote» dice a Panorama Emiliana Alessandrucci, presidente del Coordinamento libere associazioni professionali (Colap). L’associazione dei freelance, Acta in rete, esprime un giudizio altrettanto severo: «La misura adottata appare un contentino, più simbolica che reale» ma non serve «a costruire un efficace sistema di ammortizzatori sociali per chi è escluso da quello attualmente esistente».

Il problema è che dietro l’espressione della buona volontà non si scorge alcunché di concreto per gli autonomi. Certo, la misura rappresenta un’oggettiva novità. Ma non è il «provvedimento epocale», descritto con toni enfatici da Confprofessioni, perché i requisiti di accesso sono talmente stringenti da rendere pressoché irragiungibile la stessa indennità. La prima, pesante, sgranatura è l’esclusione dei professionisti iscritti agli ordini. Un colpo di katana per ridurre all’osso la platea, limitandola ai soli iscritti alla Gestione separata dell’Inps: sono oltre un milione e 600.000 i lavoratori autonomi ordinisti, titolari di una partite Iva. Per loro niente Iscro.

Tanto che nella stessa maggioranza è scattata una richiesta di revisione. Il deputato di Leu Federico Conte ha presentato un’interrogazione per denunciare il problema. «Anziché creare un meccanismo universale, si è scelto di escludere dall’integrazione al reddito una categoria intera di lavoratori, quelli ordinistici, che non vivono una situazione migliore» scrive il parlamentare nell’atto depositato alla Camera. Quindi ha chiesto un’iniziativa del governo per ampliare il provvedimento. Il nodo è nell’esistenza di un pregiudizio, un retaggio culturale sul professionista benestante, che ignora l’evoluzione del mercato: dai geometri agli ingegneri, il ricco mondo antico non c’è più. Il peso della crisi si avverte, eccome, sulle loro spalle.

Eppure, nonostante l’imponenza numerica di coloro che sono iscritti a un ordine, non è quella la vera questione. La platea del provvedimento è difatti già super esigua, viste le prescrizioni introdotte. Per avanzare la richiesta dell’Iscro è necessario essere iscritti alla Gestione separata da almeno quattro anni. Un paletto che cancella il beneficio per i più giovani: chi ha aperto una Partita Iva da un paio di anni è escluso. Ma c’è di più: il lavoratore deve aver registrato un calo del reddito di almeno il 50% rispetto alla media dei redditi del triennio precedente. E, soprattutto, non deve avere avuto un reddito superiore a 8.145 euro.

Dunque, nell’anno precedente deve aver fatturato poco più di 650 euro al mese, altrimenti non può chiedere l’indennità. «Con 8.000 euro di reddito all’anno, quel lavoratore o vive nella miseria o è costretto a lavorare in nero» taglia corto Alessandrucci. Il calcolo, del resto, non è difficile: per dimezzare il fatturato, e fissare come tetto gli 8.145, significa immaginare che l’indennità spetti solo a chi ha guadagnato 16.000 euro all’anno (in media) nei tre anni precedenti. Quindi meno di 1.400 euro mensili, senza ovviamente tredicesima e quattordicesima che non spettano a un autonomo.

La presidente del Colap sintetizza la sua analisi: «Iscro è più un incentivo alla chiusura dell’attività che uno stimolo a ripartire. Mi domando se a un professionista, che si alza tutti i giorni per guadagnare 450 euro al mese e riceve un supporto una volta ogni cinque anni, non converrebbe invece chiudere la Partita iva e chiedere il reddito di cittadinanza».

Difficile darle torto. Basti immaginare l’agente immobiliare o a un consulente assicurativo alle prese con un drammatico calo di fatturato, legato a evidenti ragioni: nei mesi di pandemia non ha potuto lavorare, tra mille difficoltà ad avere contatti con le persone. Per questi lavoratori, come per tutte le partite Iva, l’ammortizzatore sociale ideato è pura teoria: esiste solo sulla carta.

Non bastasse, c’è una beffa ulteriore: la misura deve essere coperta dagli stessi lavoratori iscritti alla Gestione separata. Il provvedimento, infatti, aumenta l’aliquota contributiva dello 0,26% nel 2021 e dello 0,51% nel 2022 e 2023. «Un’altra tassa da un centinaio di euro all’anno» lamentano le associazioni. «Le risorse c’erano già, non si avvertiva alcun bisogno di un incremento delle aliquote. La verità è che gli iscritti alla Gestione separata sono usati come un bancomat» incalza Anna Soru, presidente di Acta in rete.

L’associazione dei freelance ha fatto i conti: «A fronte dello 0,72% versato, sotto forma di prestazioni ci viene restituito lo 0,068%. Che fine fa lo 0,65 che paghiamo in eccesso?», ha chiesto, in una nota, l’associazione. E ancora: «Ricordiamo che nel 2019 la Gestione separata ha registrato complessivamente, includendo la parte pensionistica, un attivo di oltre 7 miliardi di euro. L’attivo cumulato da quando è stata istituita a oggi è superiore ai 130 miliardi. Sarebbe interessante conoscere qual è stato l’apporto della parte assistenziale a questo attivo».

C’e, comunque, chi plaude alla misura introdotta. Su tutti spicca la posizione di Gaetano Stella, coordinatore della Consulta per il lavoro autonomo e le professioni del Cnel e presidente di Confprofessioni, per cui l’intervento rappresenta un «punto di svolta storico», perché «viene riconosciuto dall’ordinamento giuridico italiano il principio, già sancito dalla Corte di Giustizia europea, che anche il lavoratore autonomo ha diritto a essere sostenuto in caso di cessazione o riduzione significativa dell’attività». Ma per Anna Soru non c’è alcuna rivoluzione: «È la solita fregatura. Tra gli iscritti della Gestione separata quasi nessuno potrà accedere all’indennità, che dovranno finanziare gli stessi lavoratori».

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