Il settore di punta del nostro export è bloccato, ma è anche pronto con nuove idee. E attraverso i suoi vertici manda un appello al governo: il rilancio non può aspettare.
«Ditemi un altro Paese al mondo dove i camici monouso sono di Armani, i respiratori Ferrari, le mascherine Gucci e il gel idroalcolico di Bulgari» recita una delle tante boutade in circolazione sui social in questi giorni di esternazioni e pensieri in libertà. Me la gira un medico del Fatebenefratelli in vena di alleggerire le sue pesantezze quotidiane. La battuta fa sorridere e, a essere sinceri, inorgoglisce anche un po’ gli animi, non fosse altro perché nasconde un fondo di verità: la moda, anzi le aziende del made in Italy hanno risposto con prontezza all’emergenza Covid-19 attuando, tra non poche burocrazie e direttive, utili strategie di conversione delle loro produzioni attraverso la realizzazione di mascherine, camici per il personale medico, calzari, gel antibatterico da distribuire gratuitamente.
E non si tratta, attenzione, di ciò che gli esperti definiscono «moral merchandising» cioè la realizzazione di prodotti creati per rispondere a un’emergenza a dimostrazione della sensibilità del brand, come è successo, per esempio, con le felpe di Balenciaga durante gli incendi in Australia, poi viste come un modo di capitalizzare una tragedia invece che come un’operazione di supporto. Con il coronavirus non si capitalizza nulla, anzi ci si rimette. Detto questo, però, esiste il serio problema del futuro, di come la situazione evolverà per il made in Italy. «Se io le dicessi che tra un anno ci sarà una cena per cento persone e bisogna comprare già da ora gli ingredienti, lei lo farebbe?»: parte dalla concretezza di una domanda retorica Francesco Tombolini, il presidente della Camera dei Buyer che raggruppa tutti i maggiori commercianti di moda e accessori italiani, per spiegare il suo punto di vista, ossia trovare un accordo tra i grandi marchi per uno stop collettivo della produzione delle collezioni per la primavera-estate 2021. Sarà difficile che i grandi gruppi decidano di saltare un giro, intanto la Camera Nazionale della Moda ha ufficialmente annullato le sfilate maschili di giugno, posticipandole a settembre, in concomitanza con quelle femminili, quando sfilerà appunto la primavera-estate 2021.
È indubbio, come sostiene la società di consulenza BCG che «le vendite al dettaglio possano subire un impatto più forte rispetto alla produzione perché i lunghi tempi di approvvigionamento della catena di distribuzione nella moda potrebbero in qualche modo proteggerla» ma tenere ferme le aziende, per molti, sembra improbabile. «Ipotizziamo di aprire i negozi, con nuove regolamentazioni, i primi di giugno» continua Tombolini. «Gli stranieri che sono i nostri maggiori compratori non ci saranno; le cerimonie, i matrimoni, gli eventi saranno stati tutti cancellati e i consumi saranno meno compulsivi. A noi commercianti non resterà che abbassare i prezzi prima dei saldi. Non solo, le collezioni estive rimarranno in negozio e così sarà per quelle invernali che dovrebbero arrivare a luglio ma arriverrano probabilmente a settembre. Forse dobbiamo fare una riflessione sui meccanismi della moda, in fondo le crisi servono anche a questo» conclude Tombolini.
Altro che saltare una stagione. Non è assolutamente sulla stessa linea strategica e non usa mezzi termini il presidente di Confindustria Moda Claudio Marenzi che categorico avverte: «Tenere le fabbriche chiuse un altro mese è impensabile, vorrebbe dire creare una pandemia economica che farebbe più morti di quella virale. Ci hanno detto il 3 aprile, possiamo spostare questa data di altre due settimane ma non oltre, bisogna riprendere il lavoro, naturalmente in sicurezza e con regole precise. Molte aziende hanno già sanificato impianti e ambienti. Ora però basta stare fermi, altrimenti si rischia che molte medie e piccole imprese non aprano mai più. E non lo dico da imprenditore senza cuore, che pensa solo ai profitti. Lo dico per i lavoratori: cosa fanno con la cassa integrazione che tra l’altro non si sa come e quando arriverà? Le scene di disperazione di chi non ha i soldi per fare la spesa, nel sud, le abbiamo viste tutti. Gli americani, quando hanno iniziato a capire la gravità della situazione, si sono comprati le armi. Non è il nostro caso, ma non escludo che potremmo trovarci di fronte alla fine della civiltà così come l’abbiamo conosciuta finora». E quindi? Quali le proposte concrete? «In Svizzera, lo stato offre a ogni imprenditore, commerciante, professionista il 10 per cento del fatturato dell’anno precedente, a tasso zero» continua Marenzi. «Certo, noi non siamo la Svizzera ma può servire da esempio. Ci sono due piani di azione: uno a lungo termine di almeno due anni e l’altro immediato. Subito dobbiamo riaprire le aziende e gli esercizi commerciali e poi mettere i soldi sul conto delle persone, saltando le banche che fanno prestiti solo ai solventi sicuri. I meccanismi per farlo ci sono e ci stiamo ragionando. Senza contare poi che, in questo momento, in Europa il tasso d’interesse è basso e uguale per tutti quindi l’Italia potrebbe chiedere 220-230 miliardi di bonus. Facciamolo e subito».
Sugli scenari futuri interviene Matteo Lunelli, presidente di Altagamma che associa 107 brand dei sette settori della moda, del design, della gioielleria, dell’alimentare, dell’ospitalità, dei motori e della nautica. «Bisogna entrare nell’ottica che questa che stiamo attraversando è una crisi severa ma passeggera. L’Italia è la protagonista del mercato mondiale di alta gamma che vale complessivamente circa 1.300 miliardi di euro, con 425 milioni di consumatori, con 400 mila persone occupate, tra diretti e indiretti. Ora si stima che nel primo trimestre 2020 il calo sarà del 25-30 per cento, mentre la profittabilità potrebbe scendere del 25-50 per cento. Ma io voglio essere ottimista e soprattutto voglio sperare che l’Europa dimostri, in questa occasione, un senso di saggezza e di solidarietà tra gli Stati, ossia che metta in atto il vero spirito dell’Unione europea. E noi come Altagamma, insieme a Confindustria Moda e altre associazioni, siamo pronti a collaborare nella ricerca di soluzioni tempestive ed efficaci».
Una crisi severa ma passeggera, certo, però viene naturale chiedersi se, dopo uno o due mesi trascorsi in casa, nei quali avremmo ridotto al minimo i nostri consumi, a cominciare dall’acquisto di abiti, non si torni alla realtà completamente cambiati, con una nuova scala di priorità e nuove esigenze, frutto di un’inedita passione per lo stare in casa. «Il consumatore forse non sarà più lo stesso: sarà più consapevole, più attento ai valori della marca, alla qualità, alla sua politica della sostenibilità e perfino al suo attivismo sui temi sociali e ambientali. Questo trend, già presente prima del coronavirus, sarà ancora più forte dopo.
Ci sarà probabilmente anche un ritorno all’orgoglio locale, a privilegiare i marchi italiani, regionali; e, come si può immaginare, ci abitueremo sempre più al digitale sia in termini di acquisti online che di comunicazione. Anche se il piacere dell’esperienza dello shopping in negozio, dopo questo periodo di reclusione forzata, tornerà con maggiore forza. Non bisogna dimenticare che il mondo del lusso è socialità, incontri, viaggi, eventi, esperienze gourmand. In fondo c’è una voglia d’incontro anche da lontano, basti pensare alle piattaforme studiate per mettere in contattato tante persone. La luce in fondo al tunnel dipenderà molto dalle azioni del governo e della scienza. Noi siamo coesi, pronti per la ripresa». Parola di Lunelli.
