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Tendenza dimissioni di massa dal lavoro

Tendenza dimissioni di massa dal lavoro

Un fenomeno sta colpendo l’Occidente produttivo, Italia inclusa. Sono le «Dimissioni di massa»: centinaia di migliaia di persone mollano l’impiego aspirando a un «di più» nella vita. Accada quel che accada. Come racconta chi fa questa scelta.


Come racconta chi fa questa scelta. avoravo e basta. Dal lunedì alla domenica. Un sacco di responsabilità e parecchi soldi. Poi, dopo la pandemia, tutto si è fermato: un senso di vuoto mai provato prima, attacchi di panico e di solitudine. Mi sono detta: ma che sto facendo?». Esordisce così Margherita Ferrario, 37 anni e una vita passata dentro una grande industria come responsabile della produzione. «È stato un black out che mi ha traumatizzata» prosegue. «La routine si è rotta. Mi sono trovata davanti a giornate che non sapevo più come riempire. Poi, lentamente, ho ricordato cosa mi piaceva fare, mi sono disconnessa dal lavoro e ho iniziato a ricongiungermi a me stessa».

Le parole di Margherita sembrano il manifesto del «tempo interrotto» che stiamo vivendo. Un manifesto contorto e disperato che può essere sintetizzato in un termine: «Grandi dimissioni». L’espressione (in inglese Great resignation), è stata coniata da Anthony Klotz, docente dell’Università del Texas, che per primo ha inquadrato il fenomeno dell’enorme quantità di persone che lasciavano il lavoro negli Stati Uniti a cominciare dai primi sei mesi del 2021. Soprattutto giovani, Millennials e Gen Z, guidati dal motto «You Only Live Once» (YOLO): si vive una volta sola. E così accade anche in Italia. Con quasi 2,2 milioni di abbandoni registrati nel nostro Paese nel 2022 e oltre 300 mila nel primo trimestre del 2023, sembra che la fuga dal lavoro sia segnata. A oggi, secondo uno studio di Randstad (2023), nel nostro Paese il 29 per cento di chi ha già un impiego ne starebbe cercando attivamente uno nuovo, e il 44 per cento delle organizzazioni registra un aumento di dimissioni negli ultimi 12-18 mesi. Da notare che il 71 per cento degli assunti ammette di non apprezzare le mansioni svolte quotidianamente (Global Re:work Report 2023 di Kelly, società internazionale di head hunting). «Siamo di fronte a un cortocircuito» riflette Giuseppe Quaranta, psichiatra, docente presso UniCamillus di Roma, in libreria da poco con il romanzo La sindrome di Ræbenson (ed. Atlantide). «I motivi non sono soltanto psicologici, ma investono l’organizzazione della società, i cambiamenti antropologici, la tecnologia, le grandi epidemie, le sirene dei lavori facili attraverso i social, in quella che si sta sempre più configurando – come notava Giuseppe Calasso – un’epoca dell’inconsistenza».

Secondo uno studio del broker assicurativo (specializzato nel mondo professionale) Lokky, motore delle dimissioni è l’esigenza di lavorare in una realtà più flessibile (32 per cento) e il desiderio di avere incarichi più soddisfacenti (27 per cento), ma anche di trovarsi a proprio agio con l’etica aziendale (40) e di riuscire a crescere nell’apprendimento di competenze (36). Ne sa qualcosa Virginia Impemba, partner della società di consulenza direzionale Impemba & Associati e nota head hunter: «Il Covid ha cambiato in modo radicale la percezione del lavoro e dei comportamenti. Esistono alcuni elementi che emergono con una certa continuità in molte situazioni aziendali: la ricerca di opportunità di crescita professionale sia come ruolo sia come retribuzione, l’attenzione sempre maggiore al work life balance, inteso come vicinanza fisica al posto di lavoro, flessibilità dell’orario e possibilità di fare smart working. La sfida delle imprese è sempre più cercare di rispondere a queste esigenze». Ed è una sfida difficile, quella degli imprenditori. Dal 2017 a oggi la difficoltà di reperimento di dipendenti è più che raddoppiata, passando dal 21,5 per cento al 47,6 per cento. Da una recente rilevazione dell’Ufficio studi della Cgia di Mestre emerge il paradosso del nostro tempo: in Italia abbiamo due milioni di disoccupati e un milione di posti che le imprese non riescono a colmare.

«Purtroppo noi imprenditori ci colpevolizziamo molto per queste dimissioni di massa, anche troppo» commenta Ludovica Rubbini, general manager di uno dei ristoranti più in auge a Cortina d’Ampezzo, il SanBrite. «Spesso ci confrontiamo fra noi, cercando soluzioni, ma sbattiamo contro un muro di gomma. I giovani di oggi sono alla perenne ricerca di un posto di lavoro migliore, preferendo il cambiamento alla crescita in un’unica azienda. Così però diventa difficile, se non impossibile, investire in una persona per fornirle gli strumenti professionali in grado di guidarla».

«Dal punto di vista psicologico» le fa eco lo psichiatra Giuseppe Quaranta «è curioso il parallelismo tra incremento dei disturbi attentivi e quello delle dimissioni volontarie. Le caratteristiche di questi disturbi sembrano una fotografia molto realistica del tempo attuale, fatto di molteplici fattori come l’incapacità di mantenere l’attenzione a lungo, l’evitamento attivo di sforzi mentali prolungati, la facile distrazione a causa di un bombardamento di stimoli mediatici, fino a veri e propri fenomeni di burnout». Parla di sindrome da burnout – uno stato di stress cronico lavoro-correlato caratterizzato dalla sensazione di completo esaurimento delle proprie energie fisiche e mentali – anche Marcello L., 43 anni, manager in una multinazionale alimentare: «Una mattina mi sono alzato e mi sono sentito uno zombie. Non avevo più energie. Sembrava quasi che una voragine mi si fosse aperta dentro al petto. Ero arrivato alla fine. Dopo mesi di notti insonni, alternate a ore e ore su zoom, la stanchezza mi aveva vinto. Non ho avuto neanche la forza di licenziarmi. Semplicemente ho mandato una email, e sono scomparso. Quale sarà il mio futuro? Per ora mi godo il Tfr. Poi si vedrà». Le incertezze per l’avvenire non sembrano contemplate per la maggior parte dei dimissionari. Come nota Luca Pesenti, sociologo e docente presso l’Università Cattolica di Milano: «Esiste una componente che mette in campo il tema del significato del lavoro. Dopo i difficili mesi di modalità “in remoto”, in tanti hanno abbandonato impieghi faticosi per andare alla ricerca di attività più significative sul piano esistenziale, anche a discapito del riscontro economico».

È un po’ quello che ha deciso di fare Barbara C., 35enne rappresentante di cosmetici in Toscana che ha rinunciato a provvigioni e benefit aziendali per iscriversi nuovamente all’Università. «Mi sono resa conto che volevo investire su me stessa, e il mio impiego non me lo permetteva. Così ho deciso di licenziarmi. Per i miei colleghi sono impazzita, in realtà sono alla ricerca di una soluzione che mi permetta, a lungo andare, una vita meno stressante rispetto a quella che ho fatto negli ultimi anni» spiega. «Con la pandemia ho capito che non siamo eterni, e continuare a impegnarmi anima e corpo per un business di altri non è quello che voglio fare nella mia vita. Per adesso sopravviverò con i risparmi, poi vedremo come andrà. I miei genitori mi hanno detto che mi aiuteranno, e dunque non mi preoccupo. Punto a fare l’insegnante, un lavoro che dal mio punto di vista garantisce un buon equilibrio fra vita privata e impiego».

Il punto di vista di Barbara C. torna di frequente nei pensieri di chi sceglie di abbandonare il proprio impiego, e una riflessione arriva dal poeta e drammaturgo Davide Rondoni: «La pandemia ha illuminato molte persone. Ci siamo resi conto che esistono dei confini fra il lavoro e la vita privata, fra quello che vogliamo essere e ciò che ci viene richiesto. Il loop della produzione, del lavoro per poi arrivare a permettersi cose che magari neanche si desiderano si è inceppato definitivamente». Entra in crisi così il mito più radicato nel nostro tempo, che si trascina dietro una messa in discussione risolutiva. «Viviamo in un mondo sociale a funzionamento automatico» conclude Quaranta «ed è difficile dire cosa potrebbe succedere se il lavoro si dovesse smaterializzare del tutto in queste forme sempre più leggere e nomadi. Al netto di qualche elemento positivo, ciò che si vede è un crescente autismo relazionale, cui contribuiscono il sequestro digitale, la volatilità dei rapporti sentimentali e un impoverimento culturale». Le dimissioni di massa come specchio dei tempi che viviamo, insomma. Un fenomeno a cui, di abbandono in abbandono, non rimane che assistere inquieti.

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