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I parchi a tema italiani sono in ginocchio

I parchi a tema italiani sono in ginocchio

Dopo un calo del fatturato del 75 per cento, non hanno potuto accedere agli aiuti statali. E adesso temono di finire preda degli speculatori.


Il Covid è riuscito a far piangere anche Topolino. Le grandi giostre dei sogni si stanno fermando. Prima il lockdown, poi le norme stringenti sul distanziamento fisico hanno messo a dura prova i parchi del divertimento, una macchina che fino a gennaio scorso macinava utili, in crescita esponenziale. Nessuno avrebbe mai immaginato che Disneyland avrebbe spento le luci per la più grande crisi di tutti i tempi. Disney Parks, la sezione più redditizia del mondo Disney, 223 mila addetti, che nel 2019 ha fatturato il 37 per cento dei ricavi totali (26 miliardi di dollari su un totale di quasi 70), ha annunciato che 28 mila dipendenti, due terzi dei quali part time, saranno licenziati. Una decisione «straziante», l’ha definita il presidente di Disney Park Josh D’Amaro, ma l’unica possibile dopo le misure imposte dalla pandemia tra cui la chiusura di Disneyland in California. Il più famoso parco a tema della casa di Topolino è fermo da metà marzo, mentre il Walt Disney World a Orlando, in California, il più visitato al mondo, ha riaperto a luglio ma con ingressi ridotti. La Disney ha accusato lo Stato della California di essere responsabile del disastro economico causato dalla chiusura di Disneyland e di aver determinato il crollo dei ricavi dei parchi dell’85 per cento rispetto all’anno precedente a 983 milioni di dollari.

La crisi non colpisce tutti allo stesso modo. Il settore negli Stati Uniti ha avuto perdite importanti ma dispone di risorse in grado di riprendersi. Le multinazionali hanno facile accesso al credito. La Disney, grazie alla solida reputazione, ha avuto finanziamenti per 13 miliardi di dollari, dei quali cinque utilizzabili in tre anni e il resto nel 2020. Ed è ciò che invece manca all’industria dei parchi in Italia dove si sta assistendo a un fenomeno più preoccupante. Le aziende, dopo aver subito un calo del fatturato del 75 per cento, non hanno potuto contare sugli aiuti pubblici e hanno difficoltà ad avere finanziamenti bancari. Sempre più indebitate, sono diventate facili prede. È un settore che, come altri del made in Italy, fa gola all’estero. Ma con l’aggravante che i nuovi proprietari spesso non sono industriali pronti a investire ma fondi speculativi interessati al brand, senza un piano di sviluppo.

Ad accendere i riflettori sul fenomeno è Giuseppe Ira, presidente dell’Associazione Parchi permanenti italiani e di Leolandia, l’unico parco a tema pensato per i bambini da zero a 10 anni, con personaggi dei cartoni animati. Una struttura che quest’anno perderà tra i 4 e i 5milioni di euro. «Dall’inizio della pandemia quattro parchi sono passati ai fondi speculativi. Nell’ultimo direttivo dell’associazione alcuni proprietari hanno riferito di aver ricevuto più di un’offerta» rivela Ira a Panorama.

In Italia si contano circa 230 tra parchi a tema, faunistici (Acquario di Genova, Zoomarine), acquatici (Aquafan Riccione, Caribe Bay) e parchi avventura, che impiegano circa 25 mila persone (10 mila fissi e 15 mila stagionali). Nel 2019 hanno attratto 20 milioni di visitatori, più 1,5 milioni dall’estero, con ricavi per 450 milioni cui va aggiunto l’indotto da 2 miliardi tra hotel, ristorazione, merchandising e manutenzione. Gli alberghi sorti attorno ai parchi di solito realizzano 1,1 milioni di pernottamenti. Nella sola Lombardia ci sono 23 strutture: nel 2019 hanno generato 5 mila posti di lavoro diretti, che arrivano a 15 mila con hotel, ristoranti, negozi e altri servizi, a fronte di 3 milioni di visitatori, di cui 300 mila stranieri, e 150 mila notti in hotel. In totale, il giro d’affari lo scorso anno è stato di 50 milioni di euro, cifra che supera i 500 milioni con l’indotto.

È un’industria dove l’innovazione è condizione del successo, tant’è che per la stagione 2019-2020 sono stati effettuati investimenti per 100 milioni finalizzati ad ampliare l’offerta con nuove attrazioni. Da marzo però la giostra del divertimento ha smesso di girare. Con il lockdown la stagione estiva è partita in ritardo e con le difficoltà imposte dalle regole sanitarie. Tutto il comparto ha dovuto rinunciare al 75 per cento del fatturato e per fine anno si stimano meno di 100 milioni di biglietteria.

Alcuni parchi sono rimasti chiusi e altri pensano di aprire solo per Halloween, il 31 ottobre, e poi saltare le feste natalizie. Gli ingressi non coprono i costi. «Non abbiamo potuto far lavorare 15 mila stagionali e si è bloccato il turnover dei dipendenti fissi. Per il 2021 prevediamo un taglio dell’occupazione del 30-40 per cento se vogliamo realizzare i due terzi di quanto fatto nel 2019» spiega Ira.

Anche le grandi attrazioni stanno soffrendo. L’Acquario di Genova che normalmente accoglie fino a 2 milioni di visitatori, ha visto scendere le presenze di 700 mila unità con minori ricavi pari a 14 milioni. «Stimiamo un calo del fatturato del 60 per cento» dice Giuseppe Costa, presidente del gruppo Costa edutainment, che conta nove strutture con 500 persone inclusi gli stagionali e 2,8 milioni di presenze, tra parchi e acquari. «Manterremo le aperture programmate, nonostante l’assenza di aiuti da parte del governo» promette Costa, con una punta polemica. «Finora abbiamo avuto solo la cassa integrazione. Io in oltre 25 anni non ne ho mai usufruito. Gli alberghi riceveranno sussidi per gli affitti, ma noi siamo stati dimenticati. Eppure siamo una parte importante nell’economia del territorio. Tante strutture ricettive si alimentano del flusso dei nostri visitatori».

I parchi maggiori come Gardaland, Mirabilandia e Magicland, in quanto parte di gruppi multinazionali quali Merlin entertainment, Parque reunidos e Pillarstone, anche se stanno soffrendo, hanno maggiori capacità di far fronte alla crisi. Le piccole realtà con un’unica proprietà sono più fragili nonostante abbiano meno costi fissi rispetto ai colossi, e la loro attività sia concentrata quasi esclusivamente nel periodo estivo.

Il problema più grosso resta la difficoltà di accedere al credito non potendo usufruire dei fondi europei, perché il settore non è inserito nel codice Ateco del turismo ma in quello dello spettacolo. Il decreto Rilancio aveva previsto l’intervento statale a garanzia dei prestiti, ma i risultati sono stati deludenti. «Le banche non fanno credito a strutture che hanno perso il 75 per cento di fatturato e con una prospettiva di ripresa lenta. All’imprenditore non resta che vendere» commenta Ira, e rivela le manovre dei fondi speculativi che «acquistano il debito a sconto e poi stringono d’assedio il proprietario del parco costringendolo a cedere l’attività». Poi la stoccata: «Il governo ha detto che preferisce l’arrivo di un operatore estero perché porta soldi. Ma i fondi spesso non investono per rilanciare e il destino dell’azienda è una lenta agonia».

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