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Harrods, in crisi nera il simbolo inglese in mano al Qatar

Harrods, in crisi nera il simbolo inglese in mano al Qatar

Da decenni di proprietà islamica, il grande magazzino londinese vive il Natale più difficile. Alle prese con il lockdown, è snobbato dai sudditi della Regina. Che lo sentono sempre più come una Disneyland araba.


Anche da lontano, la sagoma del palazzo di Harrods, nel centro di Londra, a due passi da Hyde Park, è inconfondibile. E al tramonto, è uno splendore di luci che ricalcano fedelmente il perimetro dell’austera facciata d’epoca vittoriana. È sempre lo stesso semplice, ma grandioso, addobbo natalizio ogni anno, da sempre. Un marchio di fabbrica per i grandi magazzini come una piccola bottega di tè e fruttivendolo da Charles Harrod nel 1851, e diventato il sinonimo dello shopping di lusso nel mondo.

Le luminarie quest’anno sono state accese molto prima del solito. Ma il 2020 non è un anno normale: si spera che questo «look» per le feste contribuisca a esorcizzare la crisi e la scarsa propensione a spendere della clientela. Nonostante lo sfavillare, però, Harrods è spettrale e deserto, solo qualche frettoloso passante sul marciapiede. In un anno normale, invece, ci sarebbe una marea umana, di turisti, di ogni razza e di tutte le età, stracarichi dei famosi sacchetti verdi con il classico logo color oro.

Per la seconda volta quest’anno, i grandi magazzini inglesi famosi in tutto il mondo hanno abbassato la saracinesca. Le vetrine sui quattro lati dell’edificio, che occupa un intero isolato, sono vuote. Su uno schermo a led appare in continuazione una scritta che dice «Il nostro negozio al momento è chiuso», mentre le vetrine vuote invitano allo «shopping online sul sito www.harrods.com». Sbirciando dalle vetrate degli ingressi, si intravedono commessi ai banconi: sono i personal shopper, fanno vendite online e al telefono. Lo storico «department store» vorrebbe trasmettere una rassicurante sensazione di «business as usual» la famosa frase che i commercianti di Londra mettevano fuori dai loro negozi durante la guerra sotto le bombe dei tedeschi.

La lunghissima quarantena del Regno Unito sta mettendo in ginocchio i grandi magazzini. E dà numerosi grattacapi al Qatar che da 10 anni è il proprietario dell’iconico negozio londinese. L’emiro Tamin Al-Thani, figlio di Hamad, il sovrano che ha reso grande il piccolo Paese del Golfo, si recò di persona l’8 maggio del 2010 a Londra per mettere la sua firma sulla storica acquisizione. Si dice abbia staccato un assegno da 1,5 miliardi di sterline. Su Harrods grava un debito di 200 milioni con le banche. Ma fino all’esplodere della pandemia era una macchina da soldi: circa 2 miliardi di fatturato e 200 milioni di utili ogni anno.

Adesso, però, con queste due quarantene e una Londra vuota, gli incassi sono crollati e il 2020 chiuderà con una perdita-monstre. Mal comune, visto che tutti i grandi magazzini sono in crisi nera, non è però sempre mezzo gaudio: Harrods è finito beffato dalla sua stessa fretta. Ad agosto, dopo l’agognata riapertura, Michael Ward, il manager dall’abbigliamento improbabile (è solito indossare estrosi maglioni nel periodo natalizio) e che da anni ormai guida l’azienda è corso dalle banche per sistemare il fardello del debito. Con gran soddisfazione il top manager aveva sbandierato un accordo coi creditori.

Ma l’effetto è svanito subito: tra le condizioni poste dalle banche per allungare il rimborso del debito c’era quella che Harrods non avrebbe avuto ulteriori chiusure per più di quattro settimane di fila. Galeotta fu l’estate: il ritorno alla normalità, dopo i tre mesi di lockdown, e l’economia inglese rimbalzata del 16% lasciavano immaginare tutto tranne una nuova chiusura. E invece ora la clausola impone il rimborso dei debiti con gli incassi che sono crollati. Difficilmente però lo spettro del default si materializzerà sul gruppo perchè la banca con cui Ward si è indebitato è la Qatari National Bank, di proprietà di Al-Thani.

La crisi di Harrods incarna l’onda lunga della globalizzazione e della islamizzazione del Paese. Nonostante l’architettura vittoriana coi suoi mattoni rossi, nonostante le sue vetrine siano dopo Buckingham Palace e Piccadilly uno dei simboli di Londra, di inglese c’è rimasto ben poco. Da decenni il tempio dello shopping è in mano araba: prima di Mohammed Al-Fayed, il padre di Dodi, che morì assieme a Lady Diana, e ai quali il miliardario dedicò al pianterreno un mini mausoleo di pessimo gusto. Prima di vendere, Al-Fayed per mesi aveva negato la cosa: «Harrods è unico. C’è una sola Mecca». Un simbolo del Regno Unito ridotto a una questione musulmana che meritava paragoni da religione islamica.

La gestione meno vistosa del Qatar ha però dato la spallata finale: ha trasformato Harrods in una sorta di extra-territorialità, un posto di stranieri per stranieri, un corpo ormai estraneo alla città. Da pezzo di storia inglese a un’asettica Amazon reale del lusso per i cosmopoliti della globalizzazione, gente che da Dubai va a Londra per comprare una borsa prodotta in Italia. I grandi magazzini sono una enclave di arabi e per arabi dentro Londra: tutto l’anno espone in vendita le decorazioni di Natale, ma ogni riferimento al cristianesimo è stato abolito. E da tempo gli inglesi hanno smesso di andare lì per fare acquisti.

Leggenda narra che anche la Regina comprasse nel magazzino. E che venissero chiusi interi piani per garantirle sicurezza e privacy. Vero o no, poco conta: la rassicurante leggenda metropolitana dava il senso della britannicità di Harrods. Oggi il 90% dei clienti sono stranieri: arabi e cinesi, malati di shopping compulsivo che non sanno nemmeno distinguere tra un prodotto locale e uno importato. Oppure i turisti europei low cost del fine settimana, quelli che arrivano con Ryanair e vogliono provare l’ebbrezza dell’indirizzo esclusivo.

Quello di Harrods è un modello economico fragile: basta che il turismo si fermi e l’azienda entra in crisi. E in tutto questo, gli inglesi? Nella loro istituzione commerciale fanno i commessi, i magazzinieri o i contabili: sono dei dipendenti di un emiro. Dei «sottoposti» moderni di un padrone che di democratico non ha nulla. Un ironico ribaltamento del destino per un popolo fiero del proprio impero. Ma Harrods è anche un assaggio del futuro che l’Europa rischia di sperimentare: un Vecchio continente largamente neocolonizzato da arabi e cinesi.

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