Il crollo della Russia in seguito alle sanzioni per l’invasione dell’Ucraina non c’è stato. Anzi, la Federazione segna una crescita maggiore rispetto all’Occidente. Ecco come le ultime dinamiche mondiali condizionano gli Stati europei e la vita dei suoi cittadini, Italia compresa.
Ogni mattina un uomo a Winter Park si sveglia e sa che può fare benzina a 3,5 dollari al gallone (0,85 euro al litro), ogni mattina a Cecina, in provincia di Livorno, una donna si sveglia e sa che deve fare benzina a 1,87 euro al litro. Che siate americani o italiane la benzina vi serve; solo che per averla in Italia dovrete correre molto di più. La cosiddetta economia di guerra si può spiegare anche così e rende palese perché l’America galoppa, l’Europa arranca e l’Italia, aggiogata al carro continentale, stenta e ha poche possibilità di far da sé. La guerra non è equale per tutti. La Russia che doveva crollare sotto il peso delle sanzioni ha segnato più 3,6 lo scorso anno e più 3,2 per cento di Pil è la previsione di quest’anno.
Dicono che siano i cannoni ad alzare il Prodotto interno lordo. In realtà la Russia sta vendendo molto all’estero. El’vira Nabiullina, che guida la Banca di Russia, è la più felice dei banchieri centrali: il rublo viaggia sui massimi rispetto al dollaro (ce ne vogliono 95 per un biglietto verde), ma soprattutto è al centro di un nuovo spazio economico creato proprio dalle sanzioni: l’Asia centrale. Facendo un giro d’orizzonte si vede come l’India, ormai un gigante che non dialoga con l’Occidente e non paga la guerra, fa più 6,1 per cento, la Cina cresce del 5 per cento, il Vietnam del 6, l’Arabia Saudita fa più 2,2 per cento. L’economia di guerra ridisegna una mappa del mondo dove il buco nero – con buona pace della presidente Ue Ursula von der Leyen e di Josep Borrell, l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione che si comporta da grande della Terra senza averne né gli strumenti né il peso – è l’Europa.
Lo ha certificato il Fondo monetario internazionale nell’ultimo rapporto. Continente a più 0,8 e in Italia crescita debole: 0,7 per cento quest’anno e il prossimo, inflazione in calo, ma debito troppo consistente (è il secondo in Europa a 2.876 miliardi al netto delle incognite del Superbonus edilizio). Lo stesso ministro italiano dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, è stato costretto a varare un Def di tendenza; un documento di finanza pubblica dove non ci sono certezze. Stimiamo una crescita dell’1 per cento, di recente confermata da Confcommercio che vede consumi in lievissima ripresa, un rapporto debito/Pil appena sotto il 140 per cento nonostante nuove emissioni di Btp Valore che vanno a ruba tra gli investitori. La «fu grande» Germania – nonostante sia molto di manica larga con le sanzioni alla Russia – se va bene segna più 0,5; la Francia ha un rapporto deficit/Pil vicino al 5,5, il debito sfonda il 110 per cento del Prodotto interno lordo e punta ai 3.200 miliardi di euro, una crescita forse sotto l’uno per cento.
Mentre il Congresso Usa ha appena dato il via libera all’ennesimo pacchetto di aiuti ai Paesi amici (61 miliardi di dollari all’Ucraina, 26 a Israele) il cittadino americano pur stanco di conflitti che non lo riguardano sta al riparo dagli aumenti più fastidiosi, perché a novembre nel suo Paese si vota e si «gode» un’economia che mal che vada fa il più 2,5 per cento quest’anno. Tradotto: 670 miliardi di dollari in più. Il cittadino italiano, invece, vive in un’Europa che forse spenderà in armamenti 100 miliardi di euro in più (all’Italia in quota parte toccherebbe versarne 20) che se va benissimo fa un incremento di Pil dello 0,8 per cento. Tradotto sono 128 miliardi da spartirsi, statisticamente, tra i venti Stati che adottano la divisa continentale. Anche in Europa si vota, il 9 giugno, ma nessuno pensa che per vincere le elezioni – al contrario degli aspiranti presidenti americani – bisogna tenere bassi i prezzi dei prodotti più popolari. Non solo; Enrico Letta, ex presidente del Consiglio «resuscitato» come consulente della Commissione, ci spiega che dobbiamo mettere insieme i risparmi per fare investimenti e rilanciare l’economia. Mario Draghi – candidato-ombra a tutte le cariche, in Europa – anche lui da consulente della baronessa von der Leyen sulla competitività ci fatto sapere: «In Italia ci sono oltre 6 mila miliardi tra risparmio e ricchezza finanziaria che devono essere dirottati sugli investimenti, non possono continuare a dormire in banca».
Draghi era direttore generale del Tesoro quando, nella notte del 10 luglio 1992, l’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato procedette a un prelievo forzoso del 6 per mille sui conti correnti. Dovevamo salire sul carro dell’euro che oggi arranca. Christine Lagarde, dalla sua presidenza della Bce, guarda alle mosse della Federal Reserve sui tassi, ma non si accorge che oltreoceano l’economia è ipertrofica mentre da noi langue. È vero che l’inflazione scende, ma siamo all’operazione perfettamente riuscita col paziente moribondo. Ecco gli appelli al debito comune nella speranza che un’Europa «germano-centrica» cambi rotta. Nel frattempo si è creato un nuovo distretto economico che include Tagikistan, Uzbekistan, Kazakistan, Kirghizistan. Negli ultimi due anni hanno avuto un tasso di sviluppo compreso tra il più 7,5 per cento dei tagichi e il più 4,7 per cento dei chirghisi. Con Bielorussia, Armenia, Kirghizistan e Kazakistan, diventato la seconda patria dei russi, guidati dal Cremlino hanno costituito l’Unione economica euroasiatica senza dogane. Il risultato è – come stima Bruegel, il centro studi europeo indipendente – che in due anni il Kazakistan ha esportato in Russia il 1.800 per cento in più di materiale elettronico. Spiega Anna Matveeva, analista del Russian Institute presso il Kings College: «Molte industrie russe colpite dalle sanzioni hanno spostato gli impianti e i lavoratori nei paesi dell’Unione euroasiatica e prosperano».
Ma chi dà una mano a Vladimir Putin? Certo la Cina che compra moltissimo petrolio dalla Federazione e sta completando il nuovo gasdotto dalla Siberia; certo l’India che a Mosca vende di tutto e dalla Russia riceve una quantità doppia rispetto a prima di petrolio. Ma c’è anche qualche Paese europeo. Nonostante l’Ue il 29 gennaio scorso abbia orgogliosamente varato il dodicesimo pacchetto di sanzioni… Gli aiuti all’Ucraina programmati da Bruxelles per quest’anno valgono 50 miliardi di euro, sei sono italiani, e sin qui la guerra di Kiev è costata all’Ue circa 170 miliardi il primo anno, 85 il secondo. Senza contare l’impennata dell’inflazione per i costi energetici, i 50 miliardi spesi in più dal nostro Paese per il rialzo dei tassi, l’aumento del 141 per cento di import di gas dagli Usa con un differenziale di prezzo all’origine che è il doppio e una ricaduta sul prezzo dell’energia che è più o meno questa: 15 centesimi il costo d’estrazione, un euro il prezzo di vendita.
Torniamo al distributore di Winter Park e a quello di Cecina. Ma non va per tutti allo stesso modo. Robin Brooks, direttore dell’Institute of International Finance, già capo stratega di Goldman Sachs, in un suo studio ha reso palese che mezza Europa esporta in Stati come Kirghizistan, Kazakistan, Georgia, Uzbekistan e Armenia, i quali poi «triangolano» le merci a Mosca. I principali esportatori sono Germania, Polonia (che vuole menare le mani con il Cremlino a ogni costo) e Lettonia. Berlino prima delle sanzioni aveva un export verso il Kirghizistan di cinque milioni di euro al mese; dal 2022 esporta per 180 milioni al mese. Nello studio di Brooks si legge che le esportazioni cinesi in Russia sono passate da cinque miliardi nel dicembre 2020 a 11 nel dicembre 2023. Pechino ha un filo diretto di export verso Kirghizistan, Kazakistan e Uzbekistan di cui è primo fornitore.
Ma nell’economia di guerra si trova anche l’enorme impatto che l’Ucraina ha avuto sui mercati agricoli. L’esportazione senza dazi in Ue ha provocato le proteste degli agricoltori. Stando solo all’Italia – come ha certificato il centro studi Divulga – grano tenero (+260), mais (+230) e orzo (+128) hanno invaso l’Italia con evidente effetto dumping sui prezzi, a crescere sono anche gli arrivi di carni avicole (oltre 700 tonnellate complessive), semi di girasole (+368) e soia (+108 per cento). E quello ucraino è solo uno dei fronti commerciali. La guerra in Medio Oriente ha già fatto riscaldare il prezzo del petrolio del 7 per cento nell’ultimo mese. Siamo sopra gli 85 dollari al barile. E c’è un ultimo fronte preoccupante. Quello del Mar Rosso. Da lì transitano circa sei miliardi di export italiano, l’effetto sui noli navali si fa già pesantemente sentire. Il timore che riparta l’inflazione è fondato e se la Bce non taglia i tassi la crescita è impossibile. L’economia di guerra però non è uguale per tutti. Ci si dimentica che l’Ucraina era il cuore agricolo e industriale dell’Urss e l’anima della cultura russa; difficilmente Vladimir Putin mollerà la presa. Torna dunque attuale una riflessione di Winston Churchill: «I russi provano tutte le stanze non chiuse a chiave, dove non riescono a entrare si ritirano e ti invitano cordialmente a pranzarci la sera stessa». Il presidente Volodymyr Zelensky e l’Europa sono avvisati.
