La marcia del Green deal, reiterata dopo il voto nella Ue, colpisce duramente la produzione di auto nel continente. E con l’opzione elettrica il settore-cardine dell’economia è appaltato a Est…
Acconciatura impeccabile, giacchettina rosa, il 18 luglio la baronessa ha compiuto il suo autodafé condannando al rogo la libertà di movimento degli europei. In assenza del vero «Torquemada verde», Frans Timmermans ormai ridotto all’irrilevanza anche nella sua Olanda, Ursula von der Leyen è stata costretta dai Verdi, da cui ha pietito i voti per essere confermata alla presidenza alla Commissione europea, a dichiarare al Parlamento di Strasburgo che sul Green deal non si fa un passo indietro a cominciare dal divieto di commercializzazione dal 2035 delle auto con motori a benzina.
La baronessa ha chiarito subito quali sono gli interessi che intende difendere: quelli tedeschi. Ha aperto una possibilità ai motori alimentati da e-fuel che sono una prerogativa della Germania, un’eredità tecnologica del nazismo. Questi carburanti sintetici furono messi a punto dai chimici di Adolf Hitler – gli stessi che studiarono i gas per lo sterminio degli ebrei – per far fronte all’embargo petrolifero. Il Führer bruciava carbone per ottenere CO2 che veniva fissata all’acqua con un processo di elettrolisi. Come tutto il Green deal anche gli e-fuel hanno un «non detto»: per ottenerli servono ingenti quantità di energia. L’equazione sottraiamo anidride carbonica dall’atmosfera per fare marciare i veicoli si scontra con quanta CO2 si produce per compiere l’elettrolisi.
E qui c’è l’altro aspetto – feroce soprattutto per noi italiani – del Green deal: bisogna sottrarre terra alle coltivazioni per impiantare pannelli solari (cinesi) e pale eoliche (cinesi) per generare l’energia che serve a produrre gli e-fuel o a caricare le batterie delle auto (cinesi). Una soluzione verde che salva l’agricoltura ci sarebbe, ed è italiana, ma la Von der Leyen la rifiuta. Se dà via libera ai b-fuel dispiace ai costruttori tedeschi, spiazza i cinesi e dà una mano alle case giapponesi, indiane e francesi, ma soprattutto consente all’agricoltura italiana di ottenere un altro primato e mettere ulteriori bastoni tra le ruote al Green deal nei campi. Si chiama «Farm to fork» e le multinazionali – dalla Nestlè alla Danone passando per Bayer e Unilever – molto amiche della Von der Leyen non aspettano altro che poter interrompere il fastidioso, per loro, legame tra cibo e agricoltura.
L’Italia ha il primato tecnologico nella produzione di b-fuel da scarti agricoli. Curioso constatare che a puntare forte su questi carburanti siano i giapponesi. Il numero uno di Toyota Akio Toyoda non ha mai creduto nella propulsione a pila e con il suo gruppo e in collaborazione con Subaru e Suzuki sta mettendo a punto dei motori endotermici che funzionano con metanolo e bio-butanolo e una sperimentazione molto avanzata sul biodiesel, il b-fuel appunto. Nella prospettiva di Toyota, primo costruttore di auto al mondo, si può arrivare a mettere a punto motori ibridi tra biocarburante e idrogeno, ma l’opzione elettrica non è quella del futuro. Toyoda, che di macchine se ne intende, ha copiato l’idea originaria di Henry Ford: aveva progettato il suo celebre «modello T» – uscito nel 1908, l’auto che ha messo in moto l’America – con un propulsore a etanolo. Produsse anche la Hemp Body Car: un veicolo con carrozzeria ottenuta da plastiche vegetali e il motore alimentato da olio di canapa. Gli fecero la guerra le sette sorelle del petrolio ed Henry cambiò strada.
Di Ford non va dimenticato anche un altro insegnamento: «C’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano accessibili a tutti». E con l’auto elettrica non è così. Lo ha dovuto ammettere la stessa presidente della Commissione Ue che ha constatato suo malgrado come la scelta di bloccare nel 2035 i motori endotermici abbia messo a terra l’industria tedesca. Tre anni fa Eric Heymann, capo economista della Deutsche Bank, aveva previsto in un suo studio: «Il Green deal provocherà una caduta del benessere con un’emorragia di posti di lavoro, l’industria dell’auto in Germania perderà 840 mila occupati; se si vuole attuare il Green deal bisogna imporre un’eco-dittatura». Timmermans ci ha provato, com’è finita si sa: i Verdi sono la forza politica che più di tutte ha perso voti e seggi in Europa. Oggi, per rimediare al diktat sui motori endotermici senza abiurarlo, la baronessa è costretta a varare i dazi contro le auto cinesi, ma sono un boomerang. I tedeschi, ma anche Elon Musk, sono andati a produrre in Cina, le maggiori case del Dragone al contrario hanno comprato marchi europei (da Volvo a Mg arrivando a Lotus) e oggi i dazi li paga il Vecchio continente per reimportare la loro produzione mentre la domanda rallenta.
Nei porti europei serviti da navi come la Byd Explorer – Byd è il maggior produttore di vetture a batteria – sono parcheggiate centinaia di migliaia di macchine. L’auto elettrica non cammina: in Italia finiti gli incentivi rappresenta appena il 3 per cento del mercato, in Europa flette dell’1 per cento e vale il 14,4 per cento, ma sei su dieci macchine vendute sono cinesi. Ciò detto l’Europa è ferma all’autostop. I governi vanno in ordine sparso. Se la Germania fa i conti con la crisi – Porsche ha rivisto i programmi, l’ad di Volkswagen Oliver Blume cambia rotta dopo che l’utile è sceso del 20 per cento e vira sull’ibrido – gli altri cercano una strada per evitare di trovarsi con l’economia definitivamente in panne. Giorgia Meloni a Pechino ha avuto tra gli altri obiettivi anche quello attrarre i costruttori cinesi a investire da noi; il ministro Adolfo Urso sta lavorando alla cessione di marchi italiani ad alcuni dei produttori di auto a pila – Donfeng e Byd sembrano interessati -; Pedro Sánchez in Spagna sa che Chery inaugurerà entro il 2025 il suo stabilimento iberico e anche Emmanuel Macron attende che Saic – proprietaria anche di Mg – avvii la produzione a Lione. In Francia si gioca anche il braccio di ferro di Carlos Tavares con i cinesi. Il capo di Stellantis – ha chiuso il primo semestre con un crollo del 48 per cento dell’utile netto e fosche nuvole sull’occupazione per il 2025 – che snobba l’Italia ha scelto la strada di diventare il concessionario di Leapmotor. John Elkann, sempre più lontano dalla tradizionale fabbrica che ha fatto grande Torino, sta a guardare, parla del boom della Ferrari a batteria e fa pressione perché l’Italia non apra stabilimenti per i cinesi.
Ma i governi hanno capito che quello «elettrico» è un pessimo affare: o s’incentiva la vendita (con sperpero di fondi pubblici) o le macchine a batteria non vanno. Lo sa Gil West, ceo di Hertz, il più grande gruppo di autonoleggio al mondo, che per riequilibrare i conti ha annunciato: «Venderemo tutte le nostre auto elettriche per reinvestire in auto a benzina: nessuno noleggia i veicoli a batteria». Elon Musk con la sua Tesla registra consegne sotto le attese (mancano all’appello 160 mila pezzi), 14 mila licenziamenti, con il titolo che ha perso da inizio anno il 36,8 per cento, ma in Borsa le auto vanno tutte malissimo. Il colpo finale a Ursula von der Leyen è arrivata dalla sua Germania, dove Olaf Scholz fa i conti con la peggiore congiuntura degli ultimi 20 anni. Il ministro dei trasporti tedesco Volker Wissing ha scritto alla presidente della Commissione di rivedere i limiti di emissione per i diesel Euro 5 e 6. Ma lei si è schierata a fianco dell’industriale dell’energia Jürgen Resch in una causa contro vari costruttori: sostiene che i limiti di emissioni dichiarati se le auto vengono sottoposte a test stradali sono ampiamente superati.
Si tratta quasi una riedizione del tremendo (per l’immagine tedesca) Dieselgate, lo scandalo che alla sola Volkswagen è costato 30 miliardi. La magistratura tedesca deve emettere un verdetto e la Ue sostiene che i costruttori hanno torto. Perciò in Germania 8,5 milioni di auto non potrebbero circolare e a livello europeo lo stop riguarderebbe circa 28 milioni di veicoli senza contare il blocco pressoché totale ci quelli commerciali. Tutto questo mentre si moltiplicano fantasiose iniziative come quella della sindaca di Parigi Anne Hidalgo, che trova imitatori nella giunta di Beppe Sala a Milano e in quella di Roberto Gualtieri a Roma: imporre il parcheggio a peso per bloccare i Suv, ignorando che un’auto elettrica pesa mediamente un quarto di più del corrispondente mezzo a benzina. Un’azienda tedesca, la Luhmann, che produce carburanti sintetici ha deciso di denunciare la Von der Leyen affermando che «non ha alcun senso misurare le emissioni solo allo scarico. Il piano di Bruxelles è guidato dall’ideologia, non dai fatti: le emissioni vanno quantificate durante l’intero ciclo di vita, anche nel caso delle elettriche». Che non sono così verdi come si vuole far credere, né così amate. I dati delle flotte aziendali dicono che i modelli diesel sono ancora il 51 per cento, le elettriche appena il 4,4 per cento. Questo lo sanno anche a Bruxelles.
Il commissario al Mercato interno, il francese Thierry Breton – che Macron vorrebbe confermare – ha diffuso uno studio in cui si dice: «L’Europa è lontana dall’essere pronta per vietare i motori a combustione». I dati parlano chiaro: per arrivare con tutto il parco auto all’elettrico nel 2035 – quando non si potranno immatricolare più veicoli endotermici – si dovrebbero vendere almeno 10 milioni di auto l’anno; siamo al ritmo di 400 mila in più ogni 12 mesi. I cinesi hanno in mano oltre il 20 per cento del mercato e sono gli unici a produrre vetture che costano meno di 20 mila euro. Nella Ue ci sono circa 600 mila punti di ricarica, ma il 61 per cento è concentrato in Germania, Francia e Olanda e, soprattutto, nessuno sa se la produzione di energia e la rete siano in grado di fare fronte alla domanda aggiuntiva che esigono questi modelli. La baronessa Von der Leyen, però, va dritta verso il Green deal. Doveva arrivare a presiedere la Commissione, non importa se in autostop.
