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Crac edilizio di Stato

Crac edilizio di Stato

Venti imprese dell’edilizia con quasi 2 mila dipendenti sono finite in un gorgo della burocrazia italiana. Si tratta di subappaltatori coinvolti nella crisi dell’ex colosso delle costruzioni Astaldi: la mano pubblica prima li ha soccorsi ma ora pare quasi volerli affogare.


La matematica, si sa, non è un’opinione. Tranne che al ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili. Lì, la teoria dei numeri è soggetta alle più svariate interpretazioni. Lì, ci sarebbero discussioni interminabili finanche sulla più semplice delle domande di aritmetica. Di fronte al quesito, nessuno si azzarderebbe a rispondere subito, confidando magari nei solidi trascorsi della scuola elementare. Inizierebbero invece lunghissime riunioni, richieste di pareri, interminabili consulti.

Solo che esistono circostanze in cui l’indecisione arreca danni incalcolabili. A maggior ragione se ci sono 20 imprese edili che, assieme, fatturano oltre 250 milioni di euro con quasi 2 mila dipendenti, e che stanno per passare a miglior vita. È la storia dei subappaltatori di Astaldi Spa, gigante internazionale delle costruzioni rimesso in piedi da un onerosissimo concordato preventivo in continuità e poi salvato da Webuild, che annaspano nel mare in tempesta della burocrazia italiana. Vedendosi negare a tradimento l’ultima scialuppa a cui aggrapparsi.

Riunitesi in un comitato, le aziende creditrici di Astaldi hanno deciso di rivolgersi direttamente al premier Mario Draghi e al ministro competente, Enrico Giovannini, con una lettera che solleticherebbe la fantasia del Kafka angosciante del Processo. Si ritrovano in un labirinto che ha due porte d’ingresso, ma nessuna di uscita. Intrappolate come criceti nelle gabbie di un laboratorio. Mentre il tempo sta per scadere.

Tutto inizia quando le ditte si rivolgono al fondo salva-opere, una specie di deposito di garanzia statale, per reclamare il pagamento dei lavori fatturati che Astaldi, per ovvie ragioni, non può più onorare. Documenti alla mano e superato un articolato processo di selezione, gli imprenditori ottengono il riconoscimento del 70 per cento delle somme. E, dopo un po’ di tempo, pure il primo versamento da parte della Direzione generale per l’edilizia statale e gli interventi speciali del ministero delle infrastutture. Una boccata d’ossigeno che serve a versare gli stipendi ai dipendenti, a liquidare l’Iva e a tenere buone le banche, assai preoccupate per i fidi messi a rischio dalla crisi del settore edilizio. Il resto dei soldi, assicurano gli alti papaveri ministeriali, arriverà in seguito. Sembra un miracolo, qualcosa in Italia che funziona quasi alla perfezione tutelando le Pmi e quanti non hanno santi in Paradiso.

Passano i mesi, ma del saldo del salva-opere nemmeno l’ombra. Arriva invece una letterina del dicastero di Giovannini che è una mina sui progetti di salvataggio delle imprese. Perché intima loro la restituzione dei soldi già incassati con la prima tranche. Il motivo? Aver comunicato, come prevede la legge, alla procedura del concordato preventivo il cosiddetto conto titoli. Ovvero il conto su cui accreditare gli strumenti finanziari partecipativi che dovrebbero rimborsare i subappaltatori quando saranno liquidati i beni della Astaldi. Un tecnicismo, null’altro. Al ministero però scambiano questo passaggio formale per il soddisfacimento dell’intero credito vantato. E quindi addio finanziamento del fondo.

«Come contropartita dei 451 mila euro fatturati ad Astaldi ho ricevuto nel concordato, solo nel 2021, quindi tre anni dopo l’avvio della procedura, appena 20 mila euro in azioni, non rivendibili per due anni», spiega a Panorama Veronika Csere, amministratrice della Edil sub, specializzata in opere sottomarine. «Stiamo parlando di poco più del 4 per cento del totale. Eppure, alla firma del concordato l’ipotesi era di essere ristorati almeno per il 38».

Anche da lei il ministero pretende lo storno dei 73 mila euro ricevuti come acconto per il salva-opere. «È un fondo affossa-imprese altroché», prosegue, «ma quei soldi io non ho la possibilità di restituirli. Oggi sono ferma, quasi senza dipendenti o con quei pochi rimasti in cassa integrazione. Mi trovo tutte le proprietà pignorate e sto rischiando di finire per strada senza lavoro e senza un tetto con una bambina piccola ed un marito con gravi problemi di salute».

E ritorniamo quindi alla domanda iniziale: come possono al ministero delle Infrastrutture riuscire a sostenere che 20 mila euro valgono quanto 451 mila? Ovvio che non si può. Infatti hanno provato a spiegarglielo pure i commissari della Astaldi che, in una lettera del 21 aprile 2021, hanno specificato al dicastero: «La circostanza che Astaldi Spa abbia provveduto a emettere e assegnare ai creditori (…) le azioni quotate e gli strumenti finanziari partecipativi (…) prima che codesto ministero effettuasse pagamenti in favore dei creditori ammessi al fondo salva-opere, non comporta (…) il venir meno del diritto dei creditori assegnatari dei titoli di accedere alle risorse del predetto fondo». Tant’è che «l’assegnazione dei titoli in favore dei creditori (…) non equivale al pagamento integrale del loro credito, posto che il controvalore dei titoli è sensibilmente inferiore all’ammontare nominale del credito». Titoli e strumenti finanziari sono promesse di pagamento. Null’altro. Ma al ministero sono convinti del contrario. E per questo hanno chiesto addirittura un parere legale.

La procedura di Astaldi si è allora offerta di trasferire la gestione dei titoli al ministero stesso (la cosiddetta «surroga») in maniera tale da poter rendere più semplici le operazioni di rimborso delle imprese ammesse anche al fondo salva-opere, ma dal quartier generale di Villa Patrizi hanno risposto picche perché sarebbe, secondo l’interpretazione ministeriale, contrario ai regolamenti. «Il ministero ha ammesso le aziende al fondo salva-opere e ha erogato loro la prima tranche di risorse, senza, tuttavia, avere chiaro quale fosse la procedura da seguire per consentire la formalizzazione della “surroga” prevista dalla legge», si lamentano nella missiva a Draghi i 20 imprenditori inseguiti da debiti e banche. Il risultato paradossale è che le imprese che non hanno comunicato il conto titoli alla procedura, contravvenendo alla norma, hanno ottenuto il saldo dei finanziamenti del fondo mentre quelle, in regola, che l’hanno fatto, rischiano adesso di fallire.

Astaldi, nel frattempo, è tornata sul mercato. «L’omologa sancisce il ritorno in bonis della società», ha esultato nei mesi scorsi il presidente, Paolo Astaldi. «permettendo di dare continuità a una realtà industriale di rilievo internazionale, di salvaguardare i livelli occupazionali e di continuare a contribuire allo sviluppo infrastrutturale del Paese». Tutto giusto, tutto vero. Solo che per un gigante che sopravvive, sul campo di battaglia c’è un esercito di lillipuziani che sta agonizzando.

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