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Una colata di miliardi per l’acciaio dell’ex Ilva

Una colata di miliardi per l’acciaio dell’ex Ilva

Il governo va in aiuto degli impianti di Taranto a corto di liquidità, anche a causa di ritardi di Invitalia e del mancato credito da parte delle banche spaventate dai vari sequestri ordinati dai magistrati.


L’incertezza fa male al business.ei bar di via Tommaso d’Aquino, la via principale di Taranto, non se ne parla più. I destini dell’ex Ilva, ora Acciaierie d’Italia, non scaldano le conversazioni. Fa più notizia l’arrivo delle navi da crociera della Msc, che hanno inserito la città dei due mari tra le sue tappe, portando in dote migliaia di turisti. Taranto vorrebbe scrollarsi di dosso l’immagine di capitale dell’acciaio per diventare sempre di più un polo turistico. Ma nell’apparente disinteresse dei cittadini, il grande impianto siderurgico che impiega 8.170 dipendenti a poco più di quattro chilometri di distanza dal centro, continua a impensierire sindacati e governo.

A provarlo è la decisione, presa con insolita rapidità dal governo Draghi, di inserire nell’ultimo decreto Aiuti Bis un intervento di sostegno all’ex Ilva per una cifra tra i 500 milioni e il miliardo di euro. L’iniezione di fondi viene messa a disposizione di Invitalia, socio di minoranza accanto al gruppo ArcelorMittal nella società siderurgica. L’acciaieria ha bisogno di denaro fresco perché da anni soffre di un’acuta crisi di liquidità. L’amministratrice delegata che guida il gruppo, Lucia Morselli, sostiene che l’azienda è sana ma è in difficoltà finanziarie perché «ha destinato tutte le risorse e la ricchezza generata, agli investimenti, che non abbiamo mai smesso di fare e continuiamo a fare. Investimenti per il piano ambientale che significa il nostro futuro. La carenza è quella del circolante, che non nasce adesso ma da due anni. Siamo limitati nell’acquisto delle materie prime e della produzione da monte a valle».

Gli investimenti destinati al risanamento ambientale ammontano a 1,2 miliardi tra il 2018 e il 2023 e il presidente della società Franco Bernabè ha reso noto che negli ultimi tre anni sono stati investiti nell’ex Ilva 1,1-1,2 miliardi di euro, di cui 700 milioni riferiti alla sola parte ambientale. Il tema della liquidità di Acciaierie d’Italia era approdata anche in Parlamento in maggio, con un’interrogazione firmata da un gruppo di deputati del Pd: «Continua a destare preoccupazione lo scenario gestionale e finanziario di Acciaierie d’Italia, ex Ilva. Da un lato, c’è incertezza su alcuni aspetti strategici come il piano manutenzioni, il piano industriale, il piano investimenti, la sicurezza degli impianti, i livelli di produzione e il ricorso agli ammortizzatori sociali. Dall’altro le difficoltà finanziarie che, con il continuo ritardo dei pagamenti, rischiano di mettere in ginocchio imprese e lavoratori dell’indotto».

A distanza di 10 anni dal sequestro dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico, imposto il 26 luglio 2012 dal gip Patrizia Todisco, la gigantesca fabbrica è ancora malata. Nel corso del decennio abbiamo assistito alla condanna dei fratelli Riva, i precedenti proprietari dell’ex Ilva, al commissariamento dell’impianto da parte dello Stato dal 2013 al 2017, alla gara internazionale vinta da ArcelorMittal e infine alle mosse per far ritornare pubblica l’acciaieria con un’ennesima giravolta. Una politica industriale condizionata di fatto dai magistrati. Oggi gli impianti del gruppo ex Ilva sono di proprietà dell’amministrazione straordinaria ma dati in gestione ad Acciaierie d’Italia, società di cui ArcelorMittal ha la maggioranza mentre la società pubblica Invitalia è in minoranza. In maggio quest’ultima avrebbe dovuto diventare primo azionista con il 60 per cento, ma l’operazione è slittata di due anni, a maggio 2024, in seguito al mancato dissequestro degli impianti.

La magistratura in sostanza non molla la presa sull’acciaieria, non si fida delle conclusioni dell’Ispra, l’istituto pubblico di controllo che a giugno ha verificato lo stato di attuazione del piano ambientale dell’ex Ilva confermando «una riduzione significativa delle emissioni di polveri rispetto allo scenario ante-operam», cioè prima degli investimenti per abbattere l’inquinamento. E non dissequestrando gli impianti, i giudici contribuiscono a rendere complicata l’attività finanziaria della società che a sua volta incide su quella industriale. Non solo a Taranto, ma anche a Novi Ligure, dove gli impianti lavorano il materiale che arriva dalla Puglia.

Come ricorda Rocco Palombella, segretario nazionale della Uilm, l’Italia importa circa 8 milioni di tonnellate di bobine di acciaio all’anno e in teoria Acciaierie d’Italia potrebbe superare i 6 milioni di tonnellate di produzione, ma quest’anno, secondo il sindacalista, non arriverà a 4 milioni anche se l’ultimo obiettivo dichiarato dall’azienda è di 5,7 milioni: «Si è creato un cortocircuito, compri meno, vendi meno e risparmi sui costi del personale sfruttando la cassa integrazione». Attualmente, dei tre altiforni attivi due stanno lavorando mentre il terzo è in manutenzione dall’11 luglio al 31 agosto. E circa 2.500 lavoratori sono in cassa integrazione. Rincara Francesco Brigati, segretario provinciale della Fiom: «Tra aumento dei costi per l’energia, rallentamento dei pagamenti dei clienti e credito più difficile da parte delle banche, la società vive alla giornata».

A rivelare in particolare la prudenza delle banche è stata la loro risposta al primo decreto Aiuti del governo: in quel decreto era stata emessa una garanzia Sace al 90 per cento su finanziamenti per un miliardo al gruppo siderurgico. Ma le banche hanno risposto con prestiti al contagocce, non si fidano perché Acciaiere d’Italia non ha la proprietà degli impianti che sono sotto sequestro e ha solo un contratto di affitto che scade fra 20 mesi. L’azienda nel luglio 2022 ha ottenuto comunque un finanziamento dall’Unicredit di 250 milioni di euro. Ma non basta. Perciò, di fronte alla difficoltà da parte del gruppo di ottenere credito dalla banche, il governo ha deciso di intervenire direttamente con il decreto Aiuti Bis sostituendo il miliardo previsto come finanziamento bancario che non ha funzionato.

Un intervento arrivato in extremis dopo varie promesse non mantenute. Come risulta a Panorama, oltre a iniettare 400 milioni di euro nel capitale di Acciaierie d’Italia, Invitalia avrebbe dovuto contribuire con varie forme di aiuti per un valore di circa 1,7 miliardi (700 milioni di finanziamenti garantiti da Sace, 900 milioni di sostegni agli investimenti, 100 milioni di controgaranzie a fideiussioni emesse da ArcelorMittal). Ma di questi 1,7 miliardi nelle casse dell’azienda non sarebbe arrivato niente.

Di fronte alla crisi del gas, Invitalia ha comunque emesso una garanzia per la fornitura di metano per circa 200 milioni. Nel frattempo ArcelorMittal ha versato quattro anni fa 1,8 miliardi nel capitale e ha cercato di tamponare la situazione finanziaria emettendo garanzie per circa 400 milioni di cui 300 per il gas. Inoltre ha finanziato il circolante per acquisti vari per centinaia di milioni di euro. Tutto questo non ha risolto i problemi di liquidità: «Davanti al porto di Taranto ci sono navi che non scaricano le materie prime in attesa di ricevere i pagamenti da parte del gruppo» racconta Brigati della Fiom. Mentre un fornitore che non vuole essere citato sostiene che Acciaierie d’Italia paga le fatture con un ritardo di circa sei mesi.

Secondo Palombella «è giusto intervenire immediatamente per risolvere il problema finanziario, ma questo non è sufficiente. È urgente soprattutto risolvere i temi della gestione ordinaria, della fermata di interi reparti, dei livelli altissimi di cassa integrazione, della manutenzione, del dramma dei lavoratori in amministrazione straordinaria». «Tutto questo» aggiunge il sindacalista «è durato anche troppo e rischia di esplodere». Ma in via Tommaso d’Aquino non lo sanno.

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