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Dall’odio agli affari: la strana alleanza dei signori del Golfo

Dall’odio agli affari: la strana alleanza dei signori del Golfo

Dall’Arabia Saudita alla Siria, passando per il Qatar e gli Emirati (mentre la Turchia è onnipresente). L’asse di potere e interessi si sviluppa sempre più in Medio Oriente. Il recente viaggio di Donald Trump nell’area lo dimostra. Ecco le partite economiche e politiche in cui sono protagonisti quelli che fino a ieri erano considerati avversari, se non nemici.

Mohammad Bahareth è raggiante in attesa in una sala da ballo dorata della corte saudita dell’arrivo, il 13 maggio, del presidente americano accompagnato dall’erede al trono e vero regnante, il principe Mohammad bin Salman. Tutt’attorno i dignitari sono vestiti con la tunica bianca e la kafia a scacchi rossi e bianchi. Bahareth, invitato per i suoi 1,5 milioni di seguaci su Instagram, preferisce il cappello con lo slogan «Trump 2028», che auspica una terza elezione del tycoon. «Dice quello che pensa e non gli importa di quello che pensa la gente» spiega l’influencer saudita, pro Trump, al New York Times, affascinato dal «suo spietato pragmatismo».

Nella prima e storica visita nel Golfo dal suo insediamento, dal 13 al 16 maggio, Trump ha sdoganato ex terroristi come l’autoproclamato presidente siriano Ahmad al-Shara/Al Joulani. E stretto patti economici e politici d’acciaio con regnanti «talebuoni» da Bin Salman all’emiro Tamim bin Hamad al-Thani del Qatar. Per non parlare dell’asse con il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, fautore di una spregiudicata politica da neo-sultano. «“Chi ha avuto, ha avuto / chi ha dato, ha dato / scurdámmoce ’o passato”, recita la canzone napoletana del Dopoguerra… Ecco, Trump agisce con la modalità “ricominciamo da zero”» riflette l’ex ambasciatore Carlo Marsili. «L’approccio può apparire politicamente scorretto, ma è efficace. Lo sdoganamento totale dei leader del Golfo ha anche un risvolto economico non indifferente. Ed Erdogan è il grande vincitore sullo scacchiere siriano con la caduta di Assad e tessitore diplomatico che ospita a Istanbul il primo faccia a faccia fra russi e ucraini dopo tre anni di guerra».

MBS, il principe della corona saudita, ha accolto Trump come un faraone. La limousine presidenziale è stata scortata dai cavalieri della guardia reale con più bandiere a stelle e strisce che saudite. Il lusso e lo sfarzo onnipresenti della corte servivano proprio a onorare il super ospite. MBS ha accompagnato il presidente americano nella «galleria della memoria», che espone i cimeli dell’amicizia con gli Stati Uniti, compresa la scrivania regalata dal presidente Truman al fondatore del regno, Abdulaziz al-Saud.

Bin Salman era considerato dalla precedente amministrazione un mezzo paria, dopo che un giornalista critico, Jamal Ahmad Khashoggi, venne letteralmente fatto a pezzi nel consolato saudita di Istanbul. Le bombe del regno hanno fatto strage di civili nello Yemen, in appoggio al governo sunnita tacitamente alleato a frange di Al Qaida. Abdullah Alaoudh, che vive in esilio a Washington e lavora al Middle East Democracy Center, critica duramente Trump per l’«insabbiamento» della reputazione del principe Mohammad «un leader autoritario che ha brutalmente messo a tacere ogni dissenso».
Il leader Usa ha dormito al favoloso Ritz-Carlton conosciuto, però, come «la prigione a cinque stelle» dove Bin Salman nel 2017 aveva rinchiuso ministri, membri della casa reale e imprenditori considerati oppositori. Il presidente americano ha esaltato la nuova generazione di leader del Golfo che «stanno superando i vecchi conflitti» e costruendo un Medio Oriente «di commercio e tecnologia, non di caos e terrorismo». Proprio a Riad, davanti a una folla di capi d’azienda americani e sauditi, ha affossato non solo le precedenti politiche democratiche, influenzate dai diritti umani, ma pure quella neocon dei «cosiddetti costruttori di nazioni» che «hanno distrutto molti più Paesi di quanti ne abbiano costruiti». In pratica, ha archiviato l’era dell’interventismo americano non solo nella regione aggiungendo: «Non ho mai creduto nella possibilità di avere nemici permanenti».

Musica per le orecchie di MBS, alla continua ricerca di ripulire la propria immagine. Non a caso Trump ha incassato 600 miliardi di investimenti sauditi negli Usa compresi 142 miliardi in armi definiti dal presidente «il più grande accordo di vendita di prodotti per la difesa della storia». Arduino Paniccia, esperto di strategia e sicurezza, osserva che «i padrini della guerra santa o i protagonisti come il siriano Al Joulani hanno capito che il jihadismo, il terrorismo non li portava da nessuna parte. La strategia dello scontro con l’Occidente ha portato allo sfascio paesi come Siria e Iraq».

Il ritorno di Trump alla Casa Bianca è stata l’occasione per rimescolare le carte. «Il presidente si è spinto a stringere la mano ad Al Joulani» sottolinea Paniccia. «Non solo: ha affossato la linea democratica nel Golfo e pure quella neocon dell’esportazione della democrazia. Una strategia astratta e fallita sul campo».

Il colpo a sorpresa è stata la stretta di mano con il presidente ad interim siriano Ahmad al-Shara di fronte ad MBS, il 14 maggio, definito da Trump «un vero duro». Il talebuono, o presunto tale, che comanda a Damasco ha un curriculum da terrorista di tutto rispetto. Per l’Fbi era un ricercato con un taglia di 10 milioni di dollari sulla testa. Fino alla fulminea caduta del regime di Assad viveva ad Idlib, la «capitale» ribelle del mini Califfato siriano dove tutte le donne girano con il burqa nero, non mancano monumenti che inneggiano all’attacco stragista di Hamas del 7 ottobre e per strada puoi incontrare i volontari della guerra santa e del terrore di mezzo mondo. Nome di battaglia Al Joulani, appunto, il nuovo «statista» si è fatto le ossa con Al Nusra, costola di Al Qaida in Siria e ancora prima aveva giurato fedeltà al Califfo dell’Isis, Abu Bakr al Baghdadi. L’intesa con Trump ha portato alla cancellazione delle sanzioni Usa contro la Siria seguita dall’analoga decisione dell’Unione europea.

Il primo volo internazionale atterrato a Damasco, il 7 gennaio, con l’avvento al potere di Al Sharaa/Al Joulani era della Qatar airways… E la seconda tappa, trionfale del viaggio di Trump nel Golfo, è stata proprio a Doha, accolto a braccia aperte dall’emiro Tamim bin Hamad al- Thani. I servizi del Qatar guidati dal fedelissimo, Abdullah bin Mohammed al-Khulaifi, hanno sempre mantenuto contatti spericolati con Al Qaida e l’Isis per poi far parte della Coalizione internazionale contro il Califfato. A Doha i veri talebani hanno aperto la prima e unica ambasciata servita per trattare con la precedente amministrazione Trump l’exit strategy dall’Afghanistan, poi trasformata in Caporetto dal ritiro accelerato del presidente Joe Biden. I leader in esilio di Hamas sono ospitati ancora oggi in Qatar, che versava ogni mese trenta milioni di dollari al movimento terroristico nella striscia di Gaza.

«Se non c’è Doha, non si può fare» è il motto che ha preso piede nelle crisi più complicate del Medio Oriente. La capitale del Qatar è il crocevia di tutte le mediazioni più ostiche a cominciare da quella per la liberazione degli ostaggi israeliani e la tregua nella Striscia di Gaza.
A Doha, Trump si è trovato a suo agio tenendo a battesimo accordi per 1,2 trilioni di dollari. La rinomata compagnia aerea del Qatar acquisterà 210 Boeing e investirà in maniera significativa nei droni. Per non parlare del super regalo dell’emiro: il Boeing 747 della famiglia reale, che diventerà il nuovo Air Force One, l’aereo presidenziale ormai vetusto. Il valore di mercato si aggira sui 150 milioni di dollari, ma bisogna spendere un miliardo per dotarlo delle sofisticate tecnologie di sicurezza, a cominciare dallo scudo anti missile e di comunicazione cifrata. «L’amministrazione Trump cerca successi immediati con visite di Stato come in Arabia Saudita e Qatar. Però manca un quadro d’insieme, una strategia di ampio respiro e a lungo termine per la regione» osserva Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies. E aggiunge che l’ultimo Paese visitato nel faraonico viaggio di Trump, gli Emirati arabi uniti «è preoccupato perché considera l’apertura a qualsiasi fazione islamista una minaccia esistenziale». Al Sharaa, per tenerli buoni, ha concesso ad Abu Dhabi la gestione del grande porto di Tartus, che prevede un investimento di 800 milioni di dollari, cancellando il contratto per 45 anni con i russi, che comunque mantengono la loro base navale.

Un italiano che vive da anni con la famiglia a Dubai e fa soldi con le criptovalute descrive così il regime definito «illuminato» dell’emiro Mohammed bin Rashid Al Maktoum: «Non paghi tasse, non esiste criminalità, tutto funziona, basta non parlare di politica e religione». Gli Emirati avevano annunciato il marzo scorso un investimento decennale di 1,4 trilioni di dollari negli Usa. L’obiettivo principale è l’Intelligenza artificiale. Gli Stati Unti garantiscono ad Abu Dhabi, che vuole diventare polo globale dell’Ia, l’importazione da quest’anno di mezzo milione di chip di Nvidia, i più avanzati del settore. Sul territorio americano è prevista l’apertura di una nuova fonderia di alluminio e l’emiratina Mubadala Energy sta investendo nella produzione di gas in Texas e in un terminale di gas liquefatto della Louisiana.

Trump, attraverso il suo mediatore su vari tavoli Steven Witkoff, sta portando avanti un difficile negoziato con l’Iran sul nucleare. Questa settimana dovrebbe iniziare il quinto round di colloqui in Oman. Il 20 maggio la guida suprema, il grande ayatollah Alì Khamenei, ha dichiarato che «non funzioneranno». Gli israeliani stanno pianificando un attacco aereo alle centrali nucleari iraniane, come arma di pressione anche sugli Usa. Il premier Bibi Netanyahu vede come fumo negli occhi le aperture americane nel Golfo. E Trump è irritato per la piega della guerra a Gaza, un ostacolo per il suo Medio Oriente «definito dal commercio e non dal caos». Ha’aretz, il giornale d’opposizione israeliano, scrive che la Casa Bianca intende cambiare equilibri consolidati: «Si tratta di un asse in cui l’Arabia Saudita è lo Stato guida e la Turchia un alleato strategico, mentre all’Iran viene presentata un’offerta per entrare a far parte del club».

Pedde, grande conoscitore dell’Iran, fa notare che «i messaggi Usa sono contraddittori sull’arricchimento dell’uranio o meno, ma i toni continuano a essere concilianti. Se arriveranno a un accordo non sarà molto di più rispetto a quello di Obama, poi bocciato dal primo Trump».Quest’ultimo è comunque tornato a casa dalla missione nel Golfo con un «bottino» di mille miliardi di dollari in contratti. «Tutti si sono già dimenticati cosa hanno combinato i “talebuoni” della regione» dichiara Paniccia. «Anche loro, però, hanno cambiato strategia accantonando la linea dura contro Israele e trovando una sponda forte con Trump. Il nuovo mantra è meno bombe e più affari».

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