Ora si analizza quello di Matteo Messina Denaro. Ma la mappa dei rifugi dei vari «imprendibili» è un elemento cruciale per tracciarne usi e «identikit psicologico».
Il covo gli ha permesso fino all’ultimo giorno della latitanza di fare la vita che sognava da ragazzo, a metà tra il Padrino e Joker, i personaggi dei ritratti che teneva in bella mostra nel salotto. Il bunker-cassaforte per gioielli, orologi e documenti importanti, ripulito in fretta e furia prima che entrassero gli investigatori, invece, era a due minuti di strada. E una rete di fiancheggiatori, tra i quali l’uomo che gli ha «prestato» l’identità, che gli hanno garantito 30 anni da libero e impunito.
Dal Viagra ai preservativi, a riprova che i racconti sullo «sciupafemmine» avevano un fondo di verità; dagli abiti eleganti agli accessori griffati, passione dell’ultimo boss dei Corleonesi; dall’auto sportiva Alfa Romeo Giulietta ai biglietti aerei per Regno Unito, Grecia e Venezuela, che testimoniano una certa agilità negli spostamenti. Ogni oggetto trovato nella disponibilità dell’ormai ex Primula rossa di Cosa nostra Matteo Messina Denaro, alias ’u Siccu (il Secco), dice molto di lui e, per questo, viene analizzato con attenzione dagli inquirenti. In un rito investigativo che si ripete sempre uguale fin da tempi remoti. Fu così dopo l’arresto del brigante post-unitario Carmine Crocco come per il bandito Salvatore Giuliano.
La vita degli «imprendibili» nei loro rifugi offre spunti che con Panorama la criminologa Mary Petrillo definisce «psico-criminologici». Spiega l’esperta: «Il covo dà a queste persone la possibilità di continuare la propria vita in modo abbastanza regolare. La ripetizione dei gesti tranquillizza ed è tipica di chi si sente al sicuro soltanto nel suo ambiente. Il “braccato” – nei casi di cronaca criminale sono in genere persone semplici – tende a mantenere le abitudini consolidate». Ecco perché tutti i superlatitanti, alla fine, sono stati arrestati non lontano dal territorio che controllavano. Portando la propria quotidianità nel nascondiglio che li accoglieva.
Per esempio Bernardo Provenzano, Zu Binnu ’u Tratturi (zio Bernardo il trattore), viveva in un «eremo» a pochi chilometri da Corleone: tre piccole stanze e un bagnetto. Locali rustici, con le pareti grezze e teli di plastica scura alle finestre. Nell’ingresso era sistemato un piccolo fornello elettrico che il boss utilizzava per il caffè. All’interno, una stufetta elettrica e un televisore. Quando gli investigatori hanno fatto irruzione nel suo rifugio, Provenzano stava preparando della cicoria, che avrebbe consumato con una forma di ricotta. Non usciva mai dal casolare, trascorreva le giornate scrivendo a macchina i pizzini da inviare ai picciotti o alla sua famiglia e leggendo passi della Bibbia. Quando arrivava l’allevatore che gli faceva da vivandiere – arrestato per favoreggiamento – Provenzano comunicava con lui attraverso una finestra.
Un boss latitante costruisce il suo covo secondo caratteristiche specifiche, che ne rispecchiavano carattere e fama. E ognuno di questi rifugi ha sempre custodito piccoli o grandi segreti. Nel caso di Provenzano contenuti nei pizzini. Ma che, a seconda del periodo storico della latitanza o delle diverse strategie criminali, sono anche finiti su floppy disk, penne Usb, microcassette o Vhs. Succede quasi sempre, tranne nel caso dell’arresto di Totò Riina, alias ’u Curtu (il Basso): l’ultimo rifugio, individuato all’interno di un complesso residenziale di via Bernini a Palermo, era una villetta monofamiliare, peraltro perquisita senza esito solo molti giorni dopo l’arresto del Capo dei capi. Sono almeno cinque, però, le residenze che Riina ha occupato negli oltre 23 anni in cui è riuscito a sottrarsi alla giustizia.
Una mappa con «le ville del boss» fu presentata ai giudici durante un’udienza del processo per i delitti politici di Palermo. La più nota è quella dove Riina trascorse l’ultima notte da latitante. È anche la più modesta. Le altre, più ricche, le hanno indicate mafiosi pentiti «decisivi» come Giuseppe Marchese e Balduccio Di Maggio. Tra 1980 e 1982 Riina e famiglia abitarono in una villa di via Cartiera Grande, zona di Borgo Molara. Era una costruzione circondata da mura alte tre metri, con un cancello a scorrimento elettrico e videocitofono. E andando a ritroso, aveva occupato una grande casa con giardino e parco giochi nella borgata di Villagrazia, un villino a San Giuseppe Jato e un altro a Mazara del Vallo, quest’ultimo in provincia di Trapani.
Ma Riina non è stato particolarmente «originale». Di boss che hanno scelto dimore di valore per la latitanza è disseminata la storia criminale d’Italia. Giovanni Brusca, «braccio destro» del capo di Cosa nostra che cercava di emulare in tutto, era infatti nascosto in una villa valutata alcuni miliardi di lire in una località balneare dell’Agrigentino. Gli interni erano arredati con mobili pregiati e pezzi d’antiquariato. In cucina grandi frigoriferi, nei bagni le immancabili vasche per l’idromassaggio. Secondo il detto «Conosci il tuo nemico», fu trovata anche una copia di Cose di Cosa nostra, il libro scritto da Giovanni Falcone assieme alla giornalista Marcelle Padovani.
Il «latitante di lusso» per eccellenza, però, è l’alter ego di Messina Denaro, Giuseppe Graviano. Entrambi erano i «delfini» di Riina. E avevano anche gli stessi gusti: belle donne, macchine sportive e vacanze ricorrenti. Inverni a Courmayeur, carnevale a Viareggio. Il boss di Brancaccio non faceva certo rinunce. E si muoveva, proprio come ha fatto Messina Denaro, alla luce del sole: i primi due anni di latitanza li aveva passati a Bagheria, poi si era spostato in Sardegna, a casa di parenti.
Infine si era trasferito a Milano. Stavolta, niente nascondigli né ville. Graviano aveva scelto l’hotel Quark. Sotto gli occhi di tutti, ma visto da nessuno. «A Milano facevo una vita normale» confidava Graviano al suo compagno dell’ora d’aria. «Non mi aspettavo l’arresto, ero circondato da una copertura favolosa». Dall’hotel Quark si spostava per i suoi affari o per i viaggi di piacere: «Sono stato a Venezia, Forte dei Marmi, Riccione» ha poi raccontato ai processi dopo essersi pentito. Lo shopping in via Montenapoleone, le serate al cinema o a teatro, le cene al ristorante. E nel locale «Gigi, il cacciatore» scattò il blitz del suo arresto. Giuseppe e suo fratello Filippo erano a tavola con le fidanzate. C’erano anche due amici arrivati da Palermo. Proprio seguendo uno di loro gli investigatori avevano saputo della cena. L’ultima per i Graviano da criminali in libertà.