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La mafia si moltiplica e diventa multietnica

La mafia si moltiplica e diventa multietnica

Nelle regioni italiane si rafforzano – e così riescono a controllare i business illegali – organizzazioni arrivate da altri Paesi. Dai clan albanesi a quelli del Sudamerica, e ancora, «famiglie» cinesi, bande di nigeriani o pakistani. E il loro rapporto con ’ndrangheta, camorra e Cosa nostra si va consolidando.


«Una cosa deve essere chiara: gli stranieri possono fare i malandrini in Italia solo con il consenso di ’ndrangheta, camorra e Cosa nostra». Luigi Bonaventura parla di questioni che conosce bene. Fino al 2006 è stato il reggente di una potente cosca di Crotone, poi il Tribunale di omertà (l’organo giudizionario di ogni struttura territoriale della ‘ndrangheta) ha deciso che doveva morire. Da allora è passato dalla parte dello Stato e, da collaboratore di giustizia, ha accusato i membri della sua famiglia. E non solo. Lo incontriamo in una località segreta, e parlandoci ci accompagna in una traversata da Nord a Sud tra le mafie straniere che, secondo lui, sono unite da un collante: il «consenso» delle cosche autoctone. La «United colors of mafia» d’Italia sarebbe possibile solo con il benestare dei mammasantissima. Albanesi, pakistani, nigeriani, cinesi, romeni, sudamericani, centrafricani e mediorientali sono ormai entrati in settori che erano di mafie nostrane. Oppure gestiscono affari per conto dei boss italiani. A volte lasciano delle «royalty» alle organizzazioni maggiori. Altre volte sono tollerati. «Ma ’ndrangheta, camorra e mafia hanno sempre il loro tornaconto nel far trafficare armi e droga a gruppi criminali stranieri» spiega Bonaventura. Parla lentamente e, nonostante gli anni passati a notevole distanza dal perimetro di Crotone, ha conservato la cadenza calabrese. Si parte dalla mala albanese. «La preferita dai boss della ’ndrangheta» dice il pentito. Che spiega: «C’è una grandissima affinità e ha un codice d’onore molto simile. Gli albanesi sono feroci come i calabresi e i boss si fidano di loro. Spesso li utilizzano come corrieri della droga, a partire dai porti, o come killer».

Confrontiamo subito cone le ultime relazioni della Dia, la Direzione investigativa antimafia, e le parole del pentito trovano immediato riscontro: «Le organizzazioni criminali albanesi manifestano un’alta pericolosità e una forte incidenza nelle attività illegali, con particolare riferimento al traffico di droga e di armi». Segue una descrizione che pare quella delle famiglie di ’ndrangheta, con i legami di sangue che la rendono impermeabile: «I clan sono ben strutturati e sorretti da una consolidata componente solidale, sovente rafforzate al loro interno da legami parentali». Inoltre, «diverse attività antidroga, condotte in diverse regioni italiane, hanno messo in luce sinergie tra la criminalità organizzata albanese e quella autoctona». Sempre nel campo della droga, però, si stanno facendo largo i sudamericani. Spietati anche loro. Nel 2019 un delitto raccapricciante è passato quasi inosservato. Il tronco del corpo di un uomo, parzialmente carbonizzato, viene trovato in un grosso trolley alla periferia di Milano. Nell’ambito dell’inchiesta, sono arrestati due colombiani. Il movente non è stato mai chiarito. Ma di certo i tre protagonisti non devono aver litigato per pochi spiccioli.

Dalla Colombia, spiega la Dia, viene importata la cocaina. E il pentito che parla con Panorama afferma: «I rapporti con i cartelli colombiani vengono rinsaldati anche con matrimoni combinati tra broker ’ndranghetisti e eredi dei capi sudamericani. Voglio ricordare il caso di Alessandro Pannunzi, figlio di Roberto, sposato con la figlia del boss di Medellin dei cartelli colombiani». E poi ci sono i messicani. Nel 2019 due guatemaltechi vengono bloccati a Catania dove sono stati inviati dal cartello di Sinaloa per sondare il mercato. La Guardia di finanza, nel giro di pochi mesi, scopre il nome di chi ha guidato dal Messico la spedizione: José Angel Riviera Zazueta detto el Flaco, ovvero «il Magro», uno dei più potenti grossisti internazionali di stupefacenti. Ma in Italia sembrano muoversi con una certa agilità anche gli ecuadoriani. Il crocevia è la Lombardia. Il campanello d’allarme è suonato quando il 9 luglio scorso a Sesto San Giovanni una rissa tra latinoamericani si è conclusa con un peruviano ferito a colpi di mannaia. Quando vengono arrestati due ecuadoriani si scopre che sono stati segnalati come appartenenti alla gang Latin Kings Chicago. Qui da tempo i magistrati si stavano occupando proprio di un gruppo di spacciatori ecuadoriani.

E anche le carte di quella indagine raccontano di agguati, pestaggi e violenze. In un parco del Brenta, in Veneto, e in via Avezzano a Milano. Poi ad Assago, sempre nel capoluogo lombardo. Nelle intercettazioni si parla di uno dei leader del clan ucciso in Ecuador e di una faida. Ma anche di contese tra i vari gruppi presenti in Italia, che hanno portato uno dei clan a chiedere protezione a un potente gruppo di narcotrafficanti albanesi. E, indirettamente, a chi controlla il territorio. «La mafia autoctona deve avere il suo tornaconto, che può essere una partita di droga, del carburante, un carico di armi o del denaro. E se vogliono spacciare devono comprare la droga da ’ndrangheta, camorra o dai siciliani», racconta Bonaventura, che aggiunge: «Mettiamo il caso porti un carico di droga nel porto di Gioia Tauro all’insaputa dei boss, ti vengono subito a bussare a casa e qualcosa ti succede. Senza il permesso della ’ndrangheta albanesi e nigeriani non la possono comprare la cocaina che arriva dai sudamericani».

Nel grande calderone degli affari mafiosi sembrano essersi divisi i compiti. «Anche camorra e Cosa nostra sono riuscite ad avere importanti collegamenti leader nel settore della droga e loro trattano anche eroina, mentre la ’ndrangheta no». Al di là delle affinità affaristiche, però, «le mafie straniere», sentenzia Bonaventura, «non hanno spazio senza un accordo». Accordo che sembrano aver trovato i rom. «Hanno fatto un grande salto di qualità», afferma il pentito. Con i capibastone delle cosche tradizionali che avrebbero conferito ai capi dei gruppi «zingari», come li chiamano ancora i boss calabresi, «doti di ’ndrangheta» per consentire loro «di interagire» a pieno titolo «all’interno delle dinamiche mafiose». Altro che borseggi e furtarelli. «Ai rom», secondo Bonaventura, «solitamente si lasciano le piazze di spaccio al dettaglio. In pratica i criminali stranieri sono gli operai dei boss italiani, che ormai si sono evoluti, mettendo le mani sui fondi pubblici».

Quando c’è da riciclare, invece, come aveva già ricostruito Panorama in alcuni servizi degli scorsi mesi, «scendono in campo i cinesi», dice il pentito, che sono i numeri uno «anche nel settore della contraffazione». «Anche loro, però», sottolinea Bonaventura, «scendono a patti per poter lavorare indisturbati». Stando alla Dia sarebbero riusciti «a consolidare il posizionamento in settori economici nazionali, attraverso una sistematica collocazione in precise aree territoriali». La Toscana, per esempio. Ma i business più rilevanti, stando al racconto di Bonaventura, vengono concessi anche «ai gruppi criminali centrafricani e mediorientali», che «si occupano di traffico di diamanti, petrolio, cobalto e minerali». Alcune comunità sono così radicate e compatte che a volte diventano un fattore di attrazione per le mafie. I pakistani, per esempio, sono finiti addirittura in un caso di coercizione elettorale per il rinnovo del consiglio comunale di Pioltello (Milano). E infine ci sono i nigeriani. Particolarmente presenti in otto regioni (Lazio, Campania, Calabria, Piemonte, Puglia, Emilia-Romagna, Sicilia e Veneto), sono protagonisti di una scalata velocissima tra le consorterie criminali, tanto da conquistare il titolo di «quinta mafia» italiana. Droga, sfruttamento della prostituzione, traffico di esseri umani. Se l’ex ’ndranghetista Bonaventura liquida i nigeriani con un «fanno i prepotenti ma sul territorio sono poco influenti», il giornalista e scrittore Sergio Nazzaro, tra i primi ad analizzare il fenomeno, è più cauto: «Ci sono sentenze definitive per il reato associativo di stampo mafioso». Poi spiega: «La presenza della mafia nigeriana è un fenomeno complesso e chi lo nega non tiene conto delle scoperte di Procure europee e africane. Possiamo dire che una ventina di anni fa era un fenomeno emergente e limitato a certe zone, ma oggi è molto presente e radicato, al pari della criminalità albanese». L’allarme, quindi, è tutt’altro che infondato.

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