L’assassinio risale al 13 agosto 2007. La condanna definitiva è del 12 dicembre 2015. Eppure siamo ancora qui a parlare del «caso Garlasco». A 6.500 giorni dalla morte di Chiara Poggi, la Procura di Pavia ha aperto nuove indagini. Sotto le unghie della vittima è stata individuata una traccia di Dna compatibile con il profilo genetico di Andrea Sempio, un amico del fratello di Chiara, e ora gli viene attribuita anche l’impronta di una mano sulle scale di casa Poggi, là dov’era stato gettato il corpo della ragazza. Poi, in un canale, è stato recuperato un martello di ferro, forse l’arma del delitto fin qui mai individuata.
È così che è ripartito un caso che a suo tempo aveva già riempito le cronache, e per il quale esiste anche un colpevole ufficiale: Alberto Stasi, il fidanzato di Chiara, che è in carcere dal 13 dicembre 2015. Il processo contro di lui era stato lungo e contraddittorio. Il primo e il secondo grado erano terminati con due assoluzioni piene, per non aver commesso il fatto, seguite da un brusco annullamento in Cassazione e poi da una condanna definitiva che aveva punito un omicidio volontario con appena 16 anni di reclusione.
Tanto che all’epoca s’insinuò che i giudici non fossero convinti della colpevolezza dell’imputato, e avessero deciso in barba al principio del «ragionevole dubbio».
Va detto che la giustizia penale italiana, purtroppo, ci ha abituato a ogni tipo di distorsione e che la stessa certezza del diritto, nei nostri tribunali, non è proprio un obiettivo cui si noti una spasmodica tensione ideale. Lo testimonia l’incredibile numero dei risarcimenti per ingiusta detenzione.
Il sito Errorigiudiziari.com ne calcola 31.727 tra il 1992 e il 2024, mille l’anno. Va considerato, però, che il dato descrive le richieste di risarcimento accolte, ma altrettante vengono respinte, spesso con motivazioni pretestuose. Quindi il vero numero degli arresti immotivati è molto più elevato.
Resta il fatto che il costo per lo Stato è formidabile: 901 milioni nel trentennio, oltre 27 l’anno. E la cifra non esplode solo perché il Codice di procedura all’articolo 315 stabilisce che la riparazione per l’ingiusta detenzione, indipendentemente dalla durata, non possa superare mai il tetto di 516.456,90 euro.
Infinitamente più basso è il numero degli errori giudiziari in senso stretto, quelli che riguardano un imputato condannato con sentenza definitiva che poi viene riconosciuto innocente grazie a un processo di revisione.
Errorigiudiziari.com ipotizza siano stati 222 dal 1991 al 2022, meno di sette l’anno. Il numero è irrisorio perché la strada per valutare l’errore giudiziario è un vero incubo. No, non per i magistrati o i giudici, che in Italia sono di fatto irresponsabili di condotte e decisioni. È un incubo per le vittime di giustizia: gli innocenti condannati.
Perché per valutare la sussistenza di un errore giudiziario serve la «revisione» del processo, che è un po’ come scalare l’Everest a piedi nudi. E chi ci prova viene trattato ogni volta dai tribunali, paradossalmente, come «colpevole di essere innocente». Disciplinata dagli articoli 629 e seguenti del Codice di procedura, la revisione è l’unica speranza per mettere in discussione una condanna passata in giudicato. Ma è anche un percorso a ostacoli, che si svolge in tempi lunghissimi, esasperanti, e quasi sempre si scontra con l’inevitabile opposizione della magistratura: come capita a ogni istituzione, del resto, anche la corporazione giudiziaria tende all’inerzia – se non a un’autentica resistenza – davanti a chi mette in discussione le sue decisioni. Lo dimostrano i guai subìti da Cuno Tarfusser, l’ex sostituto procuratore generale milanese, noto per l’indipendenza di giudizio, che nel marzo 2023 aveva chiesto la revisione per Olindo Romano e Rosa Bazzi, condannati nel 2008 all’ergastolo per la strage di Erba. Tarfusser aveva denunciato gravi irregolarità nella raccolta delle prove, tra cui «tecniche d’interrogatorio scorrette». Un anno dopo, la Corte d’appello di Brescia ha respinto la richiesta, e alla fine Tarfusser è stato anche censurato dal Consiglio superiore della magistratura perché avrebbe agito «con eccesso di autonomia». A quel punto, è andato in pensione.
Ogni condannato in via definitiva può chiedere la revisione del suo processo alla Corte d’appello competente. I motivi per farlo sono pochi e tassativi.
Si può partire da un «contrasto di giudicati», cioè due o più sentenze definitive che riguardano gli stessi fatti o la medesima persona, ma arrivano a conclusioni inconciliabili tra loro. Ci si può basare anche su una sentenza che abbia stabilito la falsità di prove decisive. Dal 2011 la Corte costituzionale ha deciso che anche una pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo può far riaprire il caso.
Ma non sempre è così: nell’aprile 2015 i giudici di Strasburgo avevano stabilito che Bruno Contrada, l’ex capo della Squadra mobile di Palermo, fosse stato condannato ingiustamente otto anni prima per concorso esterno in associazione mafiosa, ma nel novembre 2015 un suo tentativo di revisione è stato bocciato dalla Corte d’appello di Caltanissetta (ed era il quarto tentativo fallito). Per fortuna, nel 2017, la Cassazione ha comunque revocato la condanna.
Il motivo più frequente per rifare un processo, però, è l’emersione di «nuove prove» che – com’è ora per Alberto Stasi – potrebbero dimostrare l’innocenza del condannato. Ed è qui che si annida la maggiore criticità.
Perché ogni «nuova prova», com’è ovvio, deve essere valutata dai magistrati, e la loro discrezionalità sulla materia è piena, tanto da sfiorare l’arbitrio. Così, spesso, capita che anche fatti inediti, o mai valutati in pieno, vengano rigettati con l’argomentazione che «non sono nuovi» o «non sono decisivi». È accaduto nello stesso caso di Garlasco: la difesa di Stasi aveva presentato due richieste di revisione, nel maggio 2017 e nel giugno 2020, entrambe respinte. «La strada delle revisioni è a difficilissima, richiede intuito e un impegno infinito» dice Pardo Cellini, l’avvocato fiorentino che dal 2002 ha un record di 13 successi.
Il principale è stato l’annullamento dell’ergastolo che nel 1990 aveva murato vivo il muratore siciliano Giuseppe Gulotta (riquadro nella pagina a sinistra), arrestato nel 1976 per l’omicidio di due carabinieri e condannato grazie a confessioni estorte con torture atroci. Cellini ha ottenuto la revisione nel 2012, dopo 36 anni che Gulotta combatteva contro l’ingiustizia.
La sconcertante tesi dei giudici, nei primi rigetti delle richieste di revisione, era che le confessioni di Gulotta, pur se ritrattate nel processo, avessero avuto «un ruolo nel formare il quadro accusatorio» e che le ritrattazioni non fossero parse «credibili». Anzi, arrivarono a sostenere che la discordanza delle confessioni ne suggeriva la «indiscutibile spontaneità».
Di fronte a questo muro di gomma, non sorprende che i processi di revisione siano gocce nell’oceano della giustizia.
L’avversione del sistema giudiziario si percepisce anche nell’assenza di statistiche: non ne fornisce il ministero della Giustizia, né le Corti d’appello.
Solo la Cassazione pubblica un Annuario, e le revisioni che arrivano alla Corte sono state 165 nel 2020, 176 nel 2021, 193 nel 2022, 199 nel 2023 e 169 nel 2024. È una quota inferiore allo 0,5 per cento sul totale dei processi che ogni anno approdano in Cassazione.
Ma per i «colpevoli di essere innocenti» la stragrande maggioranza finisce comunque male.