C’è il pericolo che l’inchiesta sull’uccisione del diplomatico e del carabiniere di scorta si perda su false piste. Ma secondo i padri Comboniani, molto presenti in Congo, la matrice è chiara. E ne parlano con Panorama.
Depistaggio o verità? Rapimento o piano omicida? La morte di Luca Attanasio e dei suoi accompagnatori è ancora avvolta nel mistero. Due versioni sono al vaglio degli inquirenti, ma una sola è la certezza: la fine dell’ambasciatore italiano nella Repubblica democratica del Congo faceva comodo a tanti. A partire da chi non voleva che il diplomatico mettesse il naso negli affari sporchi che si svolgono nell’est del Paese, nella zona calda al confine naturale col Ruanda. Dove le milizie protette da Kigali trafficano minerali come il coltan, preziosissimo e indispensabile per la fabbricazione di telefoni cellulari, satelliti, missili, razzi spaziali e armi guidate; ma anche televisori, computer e videogame.
La vicenda, impantanata tra rapporti lacunosi delle Nazioni unite, fonti balbettanti e il conseguente disorientamento degli inquirenti italiani, ricorda la morte di un altro funzionario italiano: Nicola Calipari, il funzionario del Sismi (oggi Aise) ucciso a Baghdad il 4 marzo del 2005 da «fuoco amico», dopo che aveva appena liberato la giornalista del Manifesto, Giuliana Sgrena. Anni dopo, si scopritrà dai cablogrammi di Wikileaks che ci sarebbe stato un accordo segreto tra l’ambasciata Usa a Roma e il Dipartimento di Stato, finalizzato alla «scomparsa del caso dallo schermo radar della politica (italiana)». In Congo la storia è diversa: in comune, forse, lo scopo di non giungere alla verità.
Già, perché secondo i padri comboniani, che in Africa centrale spendono la loro vita per servire dio e i suoi figli più bisognosi, la matrice è chiara: «L’ambasciatore è stato ucciso perché molto scomodo nell’ambito diplomatico, come tutti sanno. Era uno che non si fermava al semplice lavoro di diplomazia, ma indagava le grandi ricchezze minerarie. Lui voleva andare più in là» dichiara a Panorama padre Filippo Ivardi Ganapini, le cui fonti qualificate sul posto «hanno parlato e ci hanno riferito fatti importanti».
Senza sicurezza
Per il momento sul tavolo degli investigatori ci sono soltanto alcune testimonianze contrastanti. Una di queste rivela che intorno alle 10 del mattino del 22 febbraio, sei o sette uomini armati di fucili mitragliatori Ak-47 e machete arrivano sulla strada che conduce al villaggio di Kanya Mahoro, a 25 chilometri dalla città di Goma. Nel frattempo il convoglio di Attanasio, composto da due auto 4×4 bianche del Programma alimentare mondiale delle Nazioni unite (Wfp), lascia la regione di Goma e imbocca la strada N2 a nord-est verso Rutshuru.
Attanasio viaggia con un solo uomo di scorta, il carabiniere Vittorio Iacovacci, eppure ha fatto da tempo richiesta di maggiore protezione, senza ottenere risposta dalla Farnesina. Il ministero degli Affari esteri italiano dichiara sul punto: «In tutti i contesti stranieri dove i nostri dipendenti effettuano missioni organizzate dalle Nazioni Unite o da altre organizzazioni internazionali, la responsabilità in materia di sicurezza è in capo a queste ultime». E aggiunge: «Relativamente alle misure vigenti al momento dell’accaduto, esse ricadevano nella responsabilità del Programma alimentare mondiale (Pam)».
Ma la moglie di Attanasio, Zakia Seddiki, non ci sta e puntualizza: «Luca è stato tradito da qualcuno vicino a noi, alla nostra famiglia. Quella mattina la sua era un’operazione che non implicava direttamente il suo lavoro di ambasciatore», come conferma padre Ganapini: «So per certo che era a conoscenza di massacri e fosse comuni in quell’area». E così sostiene anche una fonte istituzionale riservata, che a Panorama dice: «Le sue attività davano molto fastidio a tanti perché se porti da mangiare alla gente che non ha nulla, poi qualcuno non riesce più a trascinare questi disperati nelle miniere a scavare con le mani per un pezzo di pane».
Il colpevole oltrefrontiera
Il riferimento è ancora al coltan e ai suoi metodi disumani di estrazione, che vedono migliaia di adulti scavare tunnel come bestie e altrettanti bambini addentrarsi nelle strette gallerie delle miniere per estrarre il minerale a mano. Sorvegliati da milizie armate e spesso rivali, i «minatori» sono soggetti a ritorsioni e uccisioni sommarie, scomparendo in fosse comuni. Attanasio voleva vederlo con i suoi occhi. E ha pagato per la sua curiosità. «Qualcuno che conosceva i suoi spostamenti ha parlato, lo ha venduto e lo ha tradito» insiste la moglie del diplomatico. Ma chi? Padre Ganapini punta il dito molto in alto e fuori dai confini: «È stato Paul Kagame (presidente della Repubblica del Ruanda, ndr) a ordinare l’omicidio. Non abbiamo prove schiaccianti, ma le nostre fonti hanno parlato. Attanasio non si fermava al semplice lavoro di diplomazia, indagava le grandi ricchezze minerarie».
Kagame è un leader assai controverso: già a capo delle milizie di etnia tutsi del Rwandan patriotic front (Rpf), oggi trasformate in partito, pose fine alla pulizia etnica del 1994 ordita dalle milizie rivali hutu del Ruanda. Da presidente ha certamente migliorato le condizioni del Paese, ma il suo governo si è trasformato in una dittatura spietata, che non si ferma alla frontiera nazionale – le milizie al suo servizio sconfinano spesso in Congo – e che si alimenta col denaro che le multinazionali tecnologiche gli offrono in cambio delle acquisizioni e dello smercio minerario. Al punto che il suo patrimonio personale è stimato in oltre 215 milioni di dollari, tra investimenti azionari, proprietà, catene di ristoranti (come «Le pizze di Papà Paul» a Kigali), persino una squadra di calcio e un marchio di vodka.
Il rapporto dell’Onu
A tracciare un quadro più preciso di Kagame ci ha pensato un rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Ohchr), che nel 2010 ha rivelato: «La mattina del 7 dicembre 1996 (cittadini congolesi, ndr) furono adunati in diversi edifici, tra cui una chiesa avventista e un asilo. Furono rassicurati: “Restare calmi e non uscite”. Poche ore dopo, squadre del Fronte patriottico ruandese (Rpf o Arp), del generale e ministro della Difesa del governo provvisorio di Kigali, Paul Kagame, affiancate dalle milizie congolesi di Laurent Kabila (Afdl), che sarebbe diventato presidente un anno dopo, diedero inizio al massacro. La maggior parte degli uccisi fu finita a colpi di fendente inferti alla testa. Teatro del massacro fu il villaggio di Kinigi».
Tornando al 22 febbraio, le prime testimonianze dicono che uomini armati hanno sistemato ostacoli sul sentiero e iniziato a sparare in aria, per costringere il convoglio a fermarsi. Un video piuttosto confuso mostra dei locali che corrono, altri a terra spaventati e voci fuori campo che indicano: «Eccoli, sono loro. Si stanno togliendo l’uniforme». Il riferimento è alla possibilità che, per l’imboscata, il commando abbia usato le divise dei Rangers del posto per non dare nell’occhio.
La conferma arriva dal governo congolese: «Gli assalitori hanno esploso tiri di avvertimento prima di obbligare gli occupanti dei veicoli a scendere e seguirli nel fitto del parco, dopo aver abbattuto uno degli autisti al fine di creare il panico» aggiungendo che le forze armate congolesi, presenti a non più di 300 metri, «si sono messe alle calcagna del nemico».
E qui i primi dubbi. Secondo una fonte Onu, invece, l’autista Mustapha Milambo sarebbe morto perché uno degli assalitori avrebbe perso il controllo dell’arma, mentre intimava al gruppo di scendere: «Dammi denaro!» avrebbe gridato in francese, prima di far fuoco. Il governo congolese si contraddice anche quando parla dell’intervento dei Rangers a guardia del Virunga National Park i quali, allertati dagli spari, avrebbero ingaggiato sul luogo uno scontro a fuoco con gli assalitori. Per questo, le milizie avrebbero abbandonato la strada principale e si sarebbero dirette verso una collina insieme ai prigionieri. Una volta raggiunti i rapitori, i Rangers avrebbero continuato a sparare da circa cento metri di distanza, un’azione che avrebbe scatenato la risposta delle milizie e avrebbe portato alla morte degli italiani (dei soldati congolesi non si sa più niente. E forse non sono mai stati là).
Secondo una fonte italiana ascoltata dalla magistratura, Iacovacci avrebbe quindi cercato di proteggere l’ambasciatore portandolo fuori dalla linea di fuoco. Mentre il rapporto dei Rangers afferma, al contrario, che gli assalitori avrebbero deliberatamente sparato agli ostaggi prima di fuggire. Chi mente? E perché? E come mai la presidenza del Congo, il giorno stesso dell’omicidio, ha dichiarato che «elementi preliminari inconfutabili confermano la tesi di un attentato terroristico da parte delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (FdlR)», ossia uno dei numerosi gruppi ribelle attivi nell’area? Inutile dire che le FdlR hanno smentito categoricamente. Quella pista è morta sul nascere, insieme alla presenza dei soldati di Kinshasa. Il che è quantomeno sospetto.
La teoria del rapimento fallito è invece corroborata dai tre funzionari Onu e dalla fonte giudiziaria italiana. Ma anche qui le incongruenze sono tante. E i sospetti alimentano una verità odiosa: che si voglia insabbiare tutto, in nome del coltan.
