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Zimbabwe: ecco che cosa sta succedendo

Da martedì notte si è aperta la transizione in Zimbabwe. La Rhodesia britannica trasformata nel 1980 da Robert Mugabe appunto in Zimbabwe è stata la massima espressione di un’ideologia, o forse solo di una categoria interpretativa, che prendeva il nome di terzomondismo. Ma nel volgere degli anni dalla “Svizzera d’Africa” il Paese si è trasformato in un incubo totalitario, dove il padre padrone Mugabe ha condotto i giochi fino a poche ore fa. E con lui la sua etnia, gli Shona, maggioritaria nel paese.

Per gli oppositori politici e per le altre etnie, gli Ndebele su tutte, vivere sotto Mugabe è stato un calvario crescente. Il manto di un marxismo-leninismo in salsa etnica si è quindi rivelato un disastro capace di distruggere la florida economia nazionale, compromettendo la stabilità dell’intero sistema che ha avuto sino a ieri nello Zanu-Pf (Zimbabwe Africa National Union, Patriotic Front) la materializzazione del partito-stato.

I tanti dubbi dietro al presunto Golpe

Distrutta l’agricoltura, tramite confische arbitrarie di terre e tenute produttive, al collasso le infrastrutture, l’inflazione è divenuta negli anni iper-inflazione. Eppure Robert Mugabe, 93 anni, si apprestava a essere il candidato unico alle prossime elezioni presidenziali (data prevista estate 2018), che lo avrebbero confermato, grazie ai consolidati metodi antidemocratici, capo dello Stato e delle forze armate per altri cinque anni. Ma ora proprio l’esercito sembra aver preso l’iniziativa. E’ una mossa concordata con Mugabe stesso? Può darsi, dal momento che l’esercito rappresentava sino a ieri l’ultimo baluardo del regime, e vigilava immancabilmente sulle manifestazioni di piazza, per legge proibite ma ormai frequentissime.

I 15 milioni di abitanti convivono con un’economia di baratto, poiché la moneta locale è nulla e al suo posto vige la totale “dollarizzazione” degli scambi.

Disoccupazione e inflazione non sono quantificabili, al contrario della corruzione: per Transparency International lo Zimbabwe è al 154° posto sui 176 Paesi del mondo monitorati.

Nell’ossimoro, riportato dai media, dei militari che occupano pacificamente la sede della televisione nazionale (come se presentarsi in mimetica e kalashnikov sia un gesto di pace…) e informano sulle condizioni di Mugabe, apparentemente in salute e al sicuro, c’è l’assurdo di una svolta politica che sembra tagliare la strada al clan Mugabe, rappresentato dall’attuale First Lady: Grace Mugabe è sudafricana (anche la prima moglie di Mugabe era nata fuori dai confini, in Ghana) ed è l’emblema dei privilegi autocratici del clan dominante.

La First Lasy e la Cina: i ruoli da chiarire

Laureatasi con una tesi fantasma dopo appena due mesi di corso all’Università dello Zimbabwe, Grace guida dal 2014 la lega femminile dello Zanu-Pf, ma sinora si è fatta notare per gli investimenti immobiliari in Asia e le mire sui giacimenti di diamanti, capaci di generare duecento milioni di dollari di valore al mese. Quest’immenso serbatoio di ricchezza personale spiega perché in Zimbabwe il legame tra ricchezza e potere sia inscindibile.

Il conflitto tra Mugabe e i suoi gerarchi riguarda quindi il controllo di un potere economico che ha visto l’arrivo sulla scena, nell’ultimo periodo, di un attore inaspettato: la Cina. che, tramite una joint venture, è diventata infatti nel giro di pochi mesi il principale produttore mondiale di diamanti e influenza il Kimberley Process, cioè l’accordo di certificazione tra i Paesi che estraggono e quelli che commercializzano.

Certo, i diamanti fanno moralmente a pugni con un’economia ridotta a fattore di mera sussistenza. L’opposizione, dal canto suo, è allo stremo, tra repressione e violazione dei diritti umani, e ha sempre avuto in Morgan Tsvangirai (già primo ministro tra il 2009 e il 2013) la propria figura di riferimento. Nomi nuovi potrebbero emergere, come ad esempio quello del pastore Ewan Mawarire, ma ora la parola è all’esercito e al suo capo, Constantino Chiwenga.

In attesa rimangono gli oltre quattro milioni di emigrati in Sudafrica ai quali Mugabe voleva togliere il diritto di voto all’estero, e rimane la “brutale amicizia” (per citare un famoso libro di F.W. Deakin) di Pechino, così lontana eppure così vicina.

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