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Ultimo gong per Hong Kong

Ultimo gong per Hong Kong

I simboli contano. E il sinistro «passo dell’oca» imposto agli agenti cinesi incarna la svolta sempre più autoritaria di Pechino, insieme al processo (torture comprese) contro tutti coloro che hanno lottato per la democrazia della regione autonoma. E che rischiano l’ergastolo. Nel silenzio collettivo dell’Occidente.


l segno più inquietante della «nuova era» è il passo dell’oca, che negli ultimi mesi è stato definitivamente imposto agli agenti di ronda davanti agli edifici pubblici. Dopo quasi 180 anni di sobria estetica britannica, nessuno a Hong Kong avrebbe mai immaginato che la polizia potesse adeguarsi a quello che forse è il più lugubre simbolo del regime cinese: il lento ritmo di marcia a gamba tesa dell’Esercito popolare di liberazione, versione aggiornata e orientalizzante del vecchio modello nazista.

A stabilirlo, con un atto d’imperio, è stato John Lee, il governatore-fantoccio cinese che dal luglio 2022 è a capo dell’esecutivo di Hong Kong, eletto come unico candidato alle elezioni: «Il passo dell’oca in stile cinese» ha spiegato «esprime l’identità nazionale della polizia, e rappresenta l’impegno solenne della nostra lealtà a Pechino». Anche Lee, 64 anni, era un poliziotto. Poi, nel 2017, è divenuto ministro della Sicurezza nel governo di Carrie Lam, il primo dichiaratamente filocinese nella storia di Hong Kong, guidando la spietata repressione contro la «Rivoluzione degli ombrelli» che nel 2019 si opponeva proprio alla riforma elettorale antidemocratica imposta da Xi Jinping. Lee è riuscito a salire al vertice dell’amministrazione: proprio per la fedeltà garantita a Pechino e perché negli ultimi mesi ha chiuso quel poco che restava di libero, nell’isola, tra giornali, librerie tv e siti internet. Dallo scorso 15 marzo, inoltre, il controllo di Pechino sugli «affari relativi a Hong Kong» è stato trasferito dal Consiglio di Stato al comitato centrale del Partito comunista. Il passo dell’oca, insomma, è stato solo l’ultimo… passo.

I simboli sono importanti per la stabilità di ogni regime, si sa. Ma la Cina, contro il dissenso, preferisce solide sbarre di ferro. E infatti il gong finale per la libertà di Hong Kong è suonato a metà febbraio, quando è iniziato il processo che ha come principale imputato Joshua Wong, l’universitario che nel 2019, a soli 22 anni, era riuscito a spingere prima gli studenti e poi un’imponente massa di cittadini alle manifestazioni di piazza. Accanto a lui, sul banco degli accusati – e solo per aver partecipato alle primarie organizzate nel 2020 dai movimenti democratici per le elezioni del Consiglio legislativo di Hong Kong – siedono i cinque ex deputati Lam Cheuk-Ting, Claudia Mo, Ray Chan, Leung Kwok-Hung ed Helena Wong. Poi ci sono altri 41 imputati: attivisti, docenti, sindacalisti e giornalisti, i cui arresti nel gennaio 2021 hanno annientato quanto restava dell’opposizione.

Alla sbarra, insomma, ci sono tutti i capi e gli ispiratori delle rivolte di popolo che negli ultimi anni avevano disperatamente cercato d’impedire lo scivolamento dell’isola verso il totale controllo cinese, deciso dal presidente Xi Jinping fin dagli albori del suo mandato, nel 2012. Il «processo contro i 47» si fonda su presunte accuse di sovversione e terrorismo; alcuni degli imputati sarebbero responsabili di avere «tentato di costringere le autorità locali alle dimissioni». In maggioranza, sono già stati costretti a dichiararsi colpevoli, e in più casi indotti ad accusare i loro stessi compagni, ma è facile prevedere che la mannaia sarà durissima per tutti. In base alla Legge sulla sicurezza nazionale, promulgata nel giugno 2020 dall’Assemblea nazionale del popolo di Pechino e non dal Parlamento locale, i 47 rischiano l’ergastolo. La norma ha vietato tutte le tradizionali libertà di espressione e di manifestazione, che a Hong Kong erano garantite fino a tre anni fa e che la Cina, rientrata in possesso dell’ex colonia inglese nel 1997, aveva promesso sarebbero rimaste intatte almeno fino al 2047. La legge è intenzionalmente vaga nel descrivere ogni fattispecie di reato, così da garantire alla polizia l’arbitrio totale e la facoltà – in ogni momento – di perquisire, intercettare e arrestare chiunque sia solo sospettato di «cospirare contro la madre patria», o di «intelligenza con potenze straniere».

Per assicurarsi che il «processo contro i 47» si concluda con condanne granitiche ed esemplari, la Cina ha perfino modificato la procedura e ha rimpiazzato la corte tradizionale con tre giudici scelti direttamente a Pechino. Il verdetto è atteso tra pochi mesi. Nel frattempo, per evitare la minima pubblicità a questa farsa di giustizia, o forse per scongiurare qualche incidente, a ogni udienza anche il pubblico viene sostituito da agenti o da spettatori prezzolati. È strano che in Europa nessuno spenda una parola su quanto accade nel palazzo di giustizia di Hong Kong, un candido edificio neoclassico costruito nell’Ottocento, ai tempi della dominazione britannica. È strano, perché nella storia della Repubblica popolare questa è la peggiore purga politica dalla Rivoluzione culturale della seconda metà degli anni Sessanta, ai tempi di Mao Zedong. Tace l’Europarlamento, che nel luglio 2020 almeno aveva protestato contro la Legge sulla sicurezza nazionale. Tacciono i governi. Tacciono i mass media.

L’unica protesta è venuta da Londra: «La Gran Bretagna continuerà a difendere le libertà di Hong Kong» ha dichiarato in gennaio il primo ministro Rishi Sunak. Il suo predecessore, Boris Johnson, nel 2021 aveva garantito un visto d’ingresso ai tanti fuggitivi dall’ex colonia: nel settembre 2022, solo verso la Gran Bretagna, si stimava fossero almeno 150 mila. In gran parte denunciano di essere sottoposti a pressioni per tornare: le famiglie rimaste sull’isola spesso vengono minacciate dalla polizia. Vengono segnalati casi frequenti di arresti strumentali, a volte vere torture.

Nella sua ultima visita a Hong Kong, lo scorso luglio, Xi Jinping ha detto che «la vera democrazia qui è iniziata 25 anni fa, con il ritorno dei territori alla madrepatria» e che l’isola «ora deve rispettare il sistema socialista e la leadership del Partito comunista». La cerimonia era presidiata da centinaia di soldati cinesi. I poliziotti hongkonghesi non avevano ancora imparato bene il passo dell’oca.

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