Come la tecnologia aiuta la lotta alla plastica: il caso The Ocean Cleanup

Un’idea per porre rimedio a un disastro apparentemente irrisolvibile, un ragazzino a raccontarla e un progetto no-profit per liberare gli oceani dalla plastica. Il quadro perfetto per lanciare The Ocean Cleanup, l’organizzazione dietro l’omonimo sistema nato dall’intuizione di Boyan Slat, olandese classe ’94, che nel 2012 durante un TEDx nella sua città natale (Delft, nel sud dei Paesi Bassi) presentò un piano per ripulire i mari dalla plastica, dopo che nel corso delle immersioni con i suoi famigliari continuava a trovare sott’acqua più detriti che pesci. Niente motori né esseri umani, bensì un grande tubo a forma di U lungo più di 600 metri in grado di raccogliere i rifiuti plastici finiti al largo delle acque.

Le isole di plastica

Questo era l’obiettivo, che nel corso del tempo - e dopo l’abbandono degli studi in Ingegneria Spaziale - gli ha permesso di accumulare oltre 32 milioni di euro (tra crowdfunding e le donazioni di privati come Peter Thiel e Marc Benioff, fondatori, nell’ordine, di PayPal e Salesforce) e organizzare un team di oltre sessanta tra tecnici e dipendenti per fondare The Ocean Cleanup. Il primo passo è stato l’avvio dei lavori nella Great Pacific Garbage Patch, la più estesa delle cinque isole di spazzatura galleggianti, situata a metà strada tra la California e le Hawaii e dalle dimensioni pari a circa il doppio della Francia (le altre sono a Nord e Sud dell’Atlantico, nel sud del Pacifico e nell’Oceano Indiano).

Vinta la prima battaglia

La tecnologia rappresenta la possibilità di cambiamento più evidente, che offre strumenti nuovi per la risoluzione dei problemi”. Così Slat sintetizzò la sua enorme ambizione quando tubi e galleggianti erano ancora soltanto nella sua testa. Poi dopo test, rinvii e fallimenti susseguitisi nel corso degli ultimi tre anni, a inizio mese The Ocean Cleanup ha iniziato a raccogliere e bloccare le prime tonnellate di plastica (incluse le microplastiche, minuscole particelle in cui si disgregano gli oggetti che finiscono in acqua) che, una volta chiuso il tubo, saranno in seguito rimorchiate per essere rimosse dall’acqua e poi riciclate. Per quanto non siano stati rivelati numeri sulla quantità di detriti raccolti, il parziale successo segna un passo rilevante per Slat e il suo team, criticati sin dall’inizio dagli scienziati per le mancate analisi sull’impatto del gigantesco sistema di tubi sugli oceani e, ancor più, per le ingenti risorse spese per una soluzione errata nel principio, poiché la plastica andrebbe fermata prima del suo arrivo in mare e non dopo.

Dagli oceani ai fiumi

Anticipare l’intervento per evitare la continua espansione delle isole di plastica è una lezione che Slat non ha sottovalutato, tanto che due giorni fa a Rotterdam ha presentato Interceptor, un dispositivo simile a un catamarano alimentato a energia solare che sfrutta una lunga barriera galleggiante per indirizzare i materiali inquinanti verso la sua apertura. Tale sistema, che funziona 24 ore su 24, 7 giorni su 7 e può recuperare circa 50.000 kg di rifiuti al giorno. Si snoda lungo una parte del fiume, senza ostacolare il percorso delle navi e il passaggio dei pesci, ed è ancorata al letto del corso d’acqua in modo da sfruttare la corrente per riempire i sei grandi cassonetti a bordo che poi saranno rimossi per trasferire la plastica raccolta in strutture per il riciclo. Come per gli oceani, anche in questo caso bisognerà pazientare per osservare i primi risultati, ma intanto ci sono già due Interceptor in attività, uno a Jakarta (Indonesia) e l’altro a Klang (Malesia), con altri due in arrivo a Can Tho, nel delta del Mekong (Vietnam) e nella Repubblica Dominicana. Nelle intenzioni di The Ocean Cleanup, la soluzione dovrà essere utilizzata nei circa mille fiumi più inquinanti del mondo (la maggior parte è in Asia), responsabili dell’80% dei materiali plastici oceanici.

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