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June 02 2013
"La follia dal dio proveniente è assai più bella della saggezza d'origine umana". Un paio di millenni prima di Sigmund Freud e Gustav Jung, Platone nel Fedro sorprese i suoi consimili enunciando uno dei celebri paradossi da cui sarebbero maturate tante creative interpretazioni del binomio apollineo-dionisiaco. A questa tradizione classica e alle grandi saghe familiari del Novecento si allaccia Figli dello stesso padre , ultimo romanzo di Romana Petri.
Un dramma nello spazio privato di una famiglia allargata e slabbrata a furia di separazioni egoismi rimorsi e rancori. La crisi della figura paterna in una rappresentazione di stampo teatrale, coi suoi personaggi archetipali che si sfidano sul proscenio a colpi di ricordi. Il climax emotivo procede, a fuoco lento, bordeggiando l'enigma primario dell'esistenza fino alla catarsi di una nuova nascita. Come in una tragedia greca, ha suggerito la stessa autrice, le donne occupano il ruolo delle corifee, i maschi incarnano virtù e debolezze assolute e bipolari, il senso del limite e dell'illimitato.
Emilio e Germano si ritrovano fra i quaranta e i cinquanta lontani geograficamente (l'uno a Pittsburgh, professore di matematica, l'altro a Roma, affermato pittore) e spiritualmente. Li unisce in maniera inconsapevole e dolorosa l'impronta di Giovanni, il padre ormai scomparso ma rimasto ingombrante e subdolamente complice. Artefice dello scasso delle rispettive famiglie, generoso-egoista al limite dello stereotipo, amato-odiato-conteso dalle donne e dai figli. La gelosia del primogenito Germano si è cristallizzata in rivalità ossessiva per il possesso del padre-fantasma, Laio mancato. Finché un giorno manda un biglietto al fratello invitandolo all'inaugurazione della sua mostra.
La trama è fievole apparenza: immaginiamo subito tutto fin dal principio, come quei film che iniziano con un delitto in cui si vede in faccia l'assassino. Allora sono i dettagli a risaltare nella loro raffinatezza e cura. Le cose che avevamo dimenticato. Il lessico familiare, i riti quotidiani, l'odore di una casa, gli oggetti che rassicurano, l'ordine della matematica e il disordine dell'arte. E ancora, nei campi minati della psiche: il potere dei grandi e l'angoscia dei bambini, il mostro che la mitezza cela, la resa del più debole, il rancore covato e stanco. L'orgoglio che dà coraggio, la fedeltà della formica, la perfezione surrogato del benessere.
Nel bene e nel male, per possedere davvero ciò che abbiamo ereditato dal padre dobbiamo riconquistarlo. Questa intuizione di Goethe, che Massimo Recalcati spiega nel popolare Il complesso di Telemaco - Genitori e figli dopo il tramonto del padre , è alla base anche di Figli dello stesso padre. Emilio è partito per Roma, nonostante le perplessità della moglie e i fallimentari precedenti, perché suo fratello è l'altro sé da cui si sente intimamente abitato. Germano è ciò che gli resta del padre, l'ultima goccia di "follia dal dio proveniente".
Testimoni fedeli di quello che siamo (e non siamo) stati: nei fratelli è il legame di sangue più puro e orizzontale. Ma le famiglie non sono come la matematica. Dell'alveo rassicurante conservano la promessa, forse l'illusione. La realtà è più spesso un casino. Dunque la riconquista dell'eredità paterna per i due fratelli passa attraverso il brutto del rancore della gelosia dell'umiliazione e del rimpianto. Passa attraverso il sangue. Prima che sia troppo tardi.
Come il Lessico Famigliare di Natalia Ginzburg, e come la rilettura del mito di Edipo in Pier Paolo Pasolini, Figli dello stesso padre affronta a viso aperto il dilemma del tempo e della sua ancella indisciplinata, la memoria affettiva e involontaria. In una visione del mondo basata sull'interpretazione ciclica della nascita e della morte, solo i legami di sangue permettono di trascendere l'immensa distanza spazio-temporale con il nostro passato che il corso della vita ci para innanzi. Emilio e Germano, riappropriandosi dei ricordi condivisi, accettano infine la circolarità della ripetizione: lì, davanti alle tele di Germano che affrontano l'abisso della morte come in un sogno, giace l'identità che per trent'anni hanno cercato di celare a loro stessi.
Così la follia del riso e del pianto e del dolore e del vino ghermisce a un certo punto perfino la scrittura di Romana Petri, che si scrolla di dosso il senso della misura e prende a vibrare nel dionisiaco abbraccio. In un istante di "pura felicità scoordinata" il cuore batte, per la prima volta, in sincrono. È la vittoria dell'istinto, il riscatto della passione, la sottrazione di un istante al tempo che sempre "invecchia in fretta".
Romana Petri
Figli dello stesso padre
Longanesi
p. 297, 16,40 euro