Il razzismo della Tunisia, non dell'Italia

«L’epoca in cui la Tunisia ispirava rispetto e ammirazione al di fuori dei suoi confini è ormai lontana» scrive oggi l’autorevole quotidiano francese Le Monde. «Ogni settimana che passa l’immagine del Paese, che un tempo brillava di singolare fiamma nel mondo arabo-musulmano, si appanna di più. Cosa resta del prestigio che le ha conferito il suo status di avanguardia nelle libertà civili, nel pluralismo politico, nei diritti delle donne e nel rispetto delle minoranze?».

Il riferimento del giornale transalpino – che pare provenire da un altro pianeta – è alla recente esplosione di xenofobia nei confronti degli africani di colore, migranti e in massima parte subsahariani, che il presidente tunisino Kais Saied ha descritto come «orde di clandestini», che sono parte di «un piano criminale per cambiare la composizione demografica della Tunisia» rompendo la sua «affiliazione arabo-islamica». Ripetiamolo: un piano criminale per trasformare la Tunisia in un Paese africano e non invece in un membro del mondo arabo e islamico. Sono due degli elementi chiave per decodificare il problema.

Ci arriveremo. Prima, però, vale la pena ricordare come la discriminazione razziale basata sul colore che gli africani subsahariani e i discendenti di schiavi africani affrontano nel Maghreb (così come come nel Medio Oriente), sia a tutti gli effetti una realtà storica consolidata. Semmai, come ha ben osservato lo storico marocchino Chouki El Hamel, è stata una diffusa «cultura del silenzio» ad aver sinora impedito alle società nordafricane (non meno di quelle mediorientali) di affrontare e discutere apertamente delle questioni di razza, schiavitù e colore della pelle.

Eppure, a noi europei basta una frase infelice per «scoprire» improvvisamente che l’élite tunisina è razzista. Non è così. Numerosi studi antropologici già a partire dalla seconda metà del Novecento hanno esplorato le origini del razzismo endemico all’Africa nella vita dei discendenti schiavi e degli haratin (termine generalmente tradotto come «neri liberati»), soprattutto nell’area del Maghreb. E concordano nel legare questa forma di discriminazione al passato coloniale.

Per limitarci al Nordafrica, l’emergere della questione razziale nell’immaginario politico e nelle azioni pubbliche dei loro interlocutori è qualcosa con cui queste comunità si confrontano da sempre. Come ricorda Open Democracy, «in Mauritania, dove la schiavitù è stata abolita nel 1981, l’organizzazione antischiavista El Hor (fondata nel 1978) ha denunciato la persistenza della schiavitù e le sue conseguenze sulla vita degli haratin [i neri liberati] in termini di stigmatizzazione socio-politica e demonizzazione cromatica». Nondimeno, «l’attuale razzismo contro i neri africani è anche delle dinamiche contemporanee in Marocco, in cui la stigmatizzazione dei media, la disoccupazione, la povertà diffusa e l’insicurezza sociale lavorano insieme per alimentare le tensioni sociali e il risentimento rispetto ai “nuovi” arrivati».

Sono dunque molti i contesti in cui l’attribuzione del colore rivela molto delle dinamiche locali di potere, status e origine. Secondo la ricercatrice Marta Scaglioni, nelle pratiche associate al colore della pelle tra gli ’Abid Ghbonton, una comunità di discendenti di schiavi nel sud della Tunisia, «le visioni di “nerezza” radicate nella storia della schiavitù in Tunisia riemergono, in diverse forme, nella quotidianità e nell’estetica dei suoi interlocutori. Ciò rende sia la “nerezza” che il colore preoccupazioni centrali, specialmente per le donne, in relazione al matrimonio, alla bellezza e al prestigio sociale».

Questa dinamica si comprende meglio in riferimento alla regione senegalese di Kolda, dove «un matrimonio tra un discendente schiavo e una persona di ascendenza libera o nobile, non solo è accolto con disprezzo sociale da parte di quest’ultima, ma è anche considerato non ideale dalla persona che “sposa”. Anche se un numero crescente di giovani aspira a un matrimonio basato sull’amore piuttosto che sulle norme locali, le questioni di origine e razza continuano a incidere in un contesto in cui il matrimonio rimane un fattore chiave di riproduzione sociale» afferma in uno studio l’antropologa Alice Bellagamba.

Ora, se negli ultimi quindici anni si sono moltiplicate forme di attivismo per superare questa che - vale la pena ribadirlo - è una costante di numerosi Paesi nordafricani e mediorientali, è dunque proprio perché il problema coinvolge intere comunità e più generazioni.

Nella Tunisia post-rivoluzionaria abbiamo assistito sì a un progresso democratico negli ultimi dieci anni, ma affermare come fa Le Monde che il Paese sia regredito da uno Stato di diritto a una dittatura equivale a cancellare il fatto che la democrazia in questo Paese si è affacciata soltanto per un decennio, un lampo nella vita della Tunisia, mentre purtroppo la storia precedente ci consegna la dittatura di un militare – Ben Ali – che ha prosperato a lungo, e che è stata preceduta dalla «presidenza a vita» del fondatore della patria Habib Bourghiba.

Se anche le associazioni per i diritti dei neri in Tunisia puntano proprio sul fatto che un’emancipazione dal razzismo è possibile solo con una lotta costante e più incisiva, significa che il problema non solo c’è sempre stato, ma è oltretutto di ampia portata. Nel 2014 anche in Marocco la campagna nazionale «il mio nome non è negro» ha svelato come il tema del razzismo sia ben radicato nella società marocchina. E così pure lo è in Algeria e Mauritania, dove nel marzo 2016 una rete di associazioni ha lanciato la campagna internazionale antirazzista «né servi, né neri».

Se dunque è vero che dove c’è un problema lì si trova anche la soluzione, resta valido anche il suo contrario: la soluzione va cercata perché il problema sussiste. E non riguarda solo l’Africa, ma è una costante in tutte le società arabo-musulmane. Perciò, coloro i quali oggi si scandalizzano per le parole biasimevoli del satrapo tunisno, guardano il proverbiale dito senza vedere la Luna. Non c’è niente di inaspettato, insomma, nelle parole del presidente-golpista. E dunque il problema non è tanto Kais Saied, quanto a chi si rivolge e chi lo sostiene. E la stessa cosa vale per Libia, Marocco, Algeria, Mauritania, e ancora e ancora fino a sconfinare in Medio Oriente.

Negli Emirati Arabi Uniti, ad esempio, questi argomenti sono tabù. Sebbene l’abolizione della schiavitù risalga al 1963, «le dinamiche quotidiane di colore, origine e razza mostrano tutti i limiti della cittadinanza emiratina nell’assorbire razze ed etnie diverse da quelle degli ex schiavi» scrive ancora Open Democracy. Tuttavia, sebbene non tutte le persone dalla pelle nera discendano dalla schiavitù, né tutti i discendenti degli schiavi siano neri, un’importante eredità che la storia coloniale ha lasciato in tutti i Paesi che ne sono stati vittima è proprio la stretta connessione tra il colore della pelle e la schiavitù nell’immaginario popolare. «Ciò ha portato le persone socialmente “bianche” a posizionare le persone socialmente “nere” in posizioni inferiori o subordinate», da cui appunto il razzismo.

Nel Mediterraneo, insomma, non c’è nessun «miracolo tunisino» e chi ha gridato di gioia nel vedere come questo Paese fosse evoluto grazie o in seguito alle primavere arabe, si deve purtroppo ricredere. Che quella stagione avrebbe condotto a un nuovo inverno, del resto, non era difficile da immaginare. E il fatto che sinora soltanto Tunisi fosse scampata al contagio della violenza, non escludeva la possibilità di derive dittatoriali e regressione a uno status non democratico. Che è esattamente ciò che si è verificato all’arrivo di Kais Saied, che ha preso il potere con un colpo di mano nel luglio 2021, imponendo una svolta repressiva, conservatrice e xenofoba alla Tunisia. Ma da qui a dire che il Paese è irriconoscibile, ce ne passa.

In definitiva, infatti, i processi di emancipazione hanno seguito percorsi diversi e si sono svolti in tempi diversi nel Nord Africa e nel Medio Oriente. Ma comune a tutti è la loro radice arabo-musulmana di cui dicevamo, che va a inficiare l’identità prettamente africana. Finché le élite politico-economiche di questi Paesi continueranno a insistere su scorciatoie ora nazionaliste ora legate a tale identità etnico-religiosa, non vi sarà modo per queste società di emanciparsi dalla xenofobia, dal razzismo e dal radicalismo settario. E gli episodi di violenze contro i migranti neri e subsahariani non potranno che proseguire. Ciò non significa affatto che le popolazioni nordafricane siano razziste o xenofobe, ma a certi governanti conviene farglielo credere.

Il panafricanismo non ha mai attecchito proprio in ragione dell’uso politico di questi temi da parte della corrente arabo-musulmana, che ne hanno sempre limitato l’affermazione nel continente. Ne sanno qualcosa Thomas Sankara, Nelson Mandela e Muammar Gheddafi.

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