Quarta sfumatura. Dello spiegare il lavoro al babbo

Uno dei momenti francamente più difficili della mia vita, escluso il saggio di danza classica in prima elementare, è stato quando a Natale, riunita a tavola con tutti i parenti, mi è stata posta la fatidica domanda: “Ma tu Ilaria, alla fine, che lavoro faresti?”.

A porla è stato il mitico zio delle domande imbarazzanti, quello che davanti alla nonna ti chiede se hai fatto abbastanza all’amore, e che dopo ore passate a fissare il guardaroba in cerca di ispirazione per un vestito che esprima tutta la tua personalità, riduce il tuo fanta-look a quello che è: una mise imbarazzante.

Ebbene quello stesso zio, fra un vitello tonnato e un cappone ripieno, lì nel gaudio della festa e del banchetto, ha chiesto alla nipotina come sbarcasse il lunario.

Era quello il momento di rendere orgogliosi i parenti e non sembrare quella-che-vive-lontano, ma per una volta dare un senso agli anni passati fuori casa.

Schierati in fronte a me, a tavola, stavano seduti una serie infinita di cugini iperproduttivi e dai mestieri concreti, quei mestieri che si spiegano senza dover iniziare la frase con “allora…”, quei mestieri per cui esiste un nome preciso: ingegnere, architetto, medico. Tempo impiegato per la spiegazione: due secondi netti.

Ho iniziato ad avere molto caldo, poi a rimescolare ritmicamente i tortellini nel piatto. Ho guardato mia mamma e mio papà e poi ho attaccato.
Ho infilato una serie di parole a caso, trascinata dall’ansia da prestazione: social, media, blogging, editor, content, facebook, twitter… Non ci capivo più niente nemmeno io. Ho visto di fronte a me i parenti attoniti, un po’ incuriositi, un po’ annoiati. Alcuni divertiti.

Ma nessuno aveva ufficialmente capito un tubo.

Un po’ scoraggiata, mi volto verso papà, che stava in un angolo e giocava con una buccia di mandarino. Mi guardava orgoglioso e mi voleva bene. Questo è stato il regalo più bello, che mi ha convinto di tutto quanto. Ma soprattutto che quello fosse un bel Natale.

E oggi, che è la tua festa, papà, te lo dico. Ti dico grazie per quel bel sorriso. Grazie.

(E poi il mestiere alla fine mica gliel’ho detto)

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