March 19 2013
Quarta sfumatura. Dello spiegare il lavoro al babbo
Ilaria Liprandi
Uno dei momenti francamente più difficili della mia vita, escluso il saggio di danza classica in prima elementare, è stato quando a Natale, riunita a tavola con tutti i parenti, mi è stata posta la fatidica domanda: “Ma tu Ilaria, alla fine, che lavoro faresti?”.
A porla è stato il mitico zio delle domande imbarazzanti, quello che davanti alla nonna ti chiede se hai fatto abbastanza all’amore, e che dopo ore passate a fissare il guardaroba in cerca di ispirazione per un vestito che esprima tutta la tua personalità, riduce il tuo fanta-look a quello che è: una mise imbarazzante.
Ebbene quello stesso zio, fra un vitello tonnato e un cappone ripieno, lì nel gaudio della festa e del banchetto, ha chiesto alla nipotina come sbarcasse il lunario.
Era quello il momento di rendere orgogliosi i parenti e non sembrare quella-che-vive-lontano, ma per una volta dare un senso agli anni passati fuori casa.
Schierati in fronte a me, a tavola, stavano seduti una serie infinita di cugini iperproduttivi e dai mestieri concreti, quei mestieri che si spiegano senza dover iniziare la frase con “allora…”, quei mestieri per cui esiste un nome preciso: ingegnere, architetto, medico. Tempo impiegato per la spiegazione: due secondi netti.
Ho iniziato ad avere molto caldo, poi a rimescolare ritmicamente i tortellini nel piatto. Ho guardato mia mamma e mio papà e poi ho attaccato.
Ho infilato una serie di parole a caso, trascinata dall’ansia da prestazione: social, media, blogging, editor, content, facebook, twitter… Non ci capivo più niente nemmeno io. Ho visto di fronte a me i parenti attoniti, un po’ incuriositi, un po’ annoiati. Alcuni divertiti.
Ma nessuno aveva ufficialmente capito un tubo.
Un po’ scoraggiata, mi volto verso papà, che stava in un angolo e giocava con una buccia di mandarino. Mi guardava orgoglioso e mi voleva bene. Questo è stato il regalo più bello, che mi ha convinto di tutto quanto. Ma soprattutto che quello fosse un bel Natale.
E oggi, che è la tua festa, papà, te lo dico. Ti dico grazie per quel bel sorriso. Grazie.
(E poi il mestiere alla fine mica gliel’ho detto)
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