"Quando salvai dalla fame Bob Dylan"

Il ragazzo magro con la camicia a quadretti e i pantaloni stazzonati entrò nel ristorantino del Village. Teneva una chitarra sulla schiena, appesa per un cordone; e al collo portava uno strano aggeggio di metallo: una stanghetta con le viti a farfalla, e con una staffa davanti che reggeva un’armonica a bocca.

Avrà avuto vent’anni: si guardò intorno con due occhi svegli, accesi dalla fame e incorniciati da folti riccioli scuri. Si accese una sigaretta, sorrise e si avvicinò al loro tavolo: «Hi girls, where are you from?». Ciao, ragazze, di dove siete? Poi, senza aspettare la risposta, supplicò: «Mi offrite la cena? Vi prego, muoio di fame».

«Fu così che conobbi Bob Dylan» racconta nella sua casa milanese Anny Gianchetti, 72 anni, «e che gli detti da mangiare». La storia di un salvataggio dall’inedia del menestrello d’America, avvenuto per di più grazie a due italiane, non è mai entrata nelle sue biografie, ma è tanto vera quanto sorprendente.

Per tutta la vita la signora Gianchetti ha lavorato nel turismo. In quell’estate del 1961 era appena atterrata a New York con un gruppo d’italiani, che guidava alla scoperta di Manhattan con Grazia, una collega torinese. I ricordi fluiscono tra un sorriso e l’altro. Anny ha la memoria buona. Rammenta com’era vestito Bob e com’erano abbigliate loro: una camicina bianca, da brave ragazze, e la gonna blu plissettata.

L’incontro, per loro, fu davvero strano. «Quel giovane sconosciuto ci si presentò con il suo vero nome, Robert Zimmerman. Era proprio male in arnese. Insisteva per l’invito a pranzo: “Se siete italiane e siete qui, siete ricche”. Noi protestammo. Ricche? Eravamo a New York per lavoro, e sulle spese. Ma ci impietosì e gli regalammo un vassoio di patatine fritte».

In cambio, quella sera stessa Bob le fece entrare senza pagare nel locale dove si sarebbe esibito. «Vivo di musica» spiegò alle due amiche «ma devo ancora sfondare. Ho un bel repertorio, venitemi a sentire: per voi è gratis». Anny e Grazia lo seguirono, curiose: probabilmente al Gerde’s Folk City, nel cuore del Village. «Non mi ricordo il nome del locale» dice Anny. «Rammento solo che si scendeva qualche gradino, che c’era molto fumo e poca gente ad ascoltare. Bob salì sul palco e iniziò il suo spettacolino».


Il ragazzo con la chitarra e l’armonica suonava da dio. «Ma era soprattutto la voce che ci colpì: nasale, intensa. Unica». La serata trascorse tra qualche bibita e alcune canzoni mai sentite prima: Talking bear mountain picnic massacre blues, Talking New York… Quella musica conquistò Anny e la sua amica. «Ci salutammo, promettendoci che ci saremmo rivisti l’indomani. Così fu. Nel solito ristorante, al Village, gli offrimmo un’omelette al formaggio. Poi tornammo a sentirlo».


Anny e Grazia non avevano idea di trovarsi di fronte a quello che nel giro di poche settimane, grazie alla scoperta del critico del New York TimesRobert Shelton, sarebbe esploso come uno dei più grandi fenomeni degli anni Sessanta e poi sarebbe entrato nell’empireo della musica. «Rivedemmo Bob ancora una o due volte» ricorda Anny. «Ci esortò a comprare un suo 45 giri. Corremmo al negozio, poi in aeroporto».

Qualche anno dopo, a Milano, Anny vide in tv il suo amico affamato che suonava. Era già diventato Bob Dylan. Ed era anche un po’ meno magro. Non molto, però.  

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