Tra agevolazioni, crediti d’imposta, riduzione tariffarie, il governo Draghi ha approvato provvedimenti che favoriscono la transizione ecologica per quasi 30 miliardi di euro. Ma troppi, come spesso accade, si areneranno tra ministeri e parlamento.
Ormai si sente ripetere da settimane: bisogna assolutamente riprendere in mano la fatidica «agenda Draghi», specie sul fronte energetico. Anche perché, per dirla con Luigi Di Maio, «l’energia è il motore della transizione ecologica e dell’economia circolare e allo stesso tempo il campo dove si gioca la sicurezza dell’Italia e dell’Europa. Bisogna ottenere il tetto al prezzo del gas russo». Così d’altronde è scritto nel manifesto programmatico di «Impegno civico». Eppure qualcosa a riguardo già era stato fatto, come col Decreto legge n. 34, approvato lo scorso 27 aprile, relativo proprio a «misure urgenti per il contenimento dei costi dell’energia elettrica e del gas naturale», che prevedeva tra le altre cose la «definizione dei prezzi per contratti di acquisto a lungo termine (10 anni) del Gas». Ottimo, si dirà. Se non fosse che il provvedimento attuativo, che sarebbe spettato al ministero dell’Economia guidato da Daniele Franco e a quello della Transizione ecologica di Roberto Cingolani, non è mai stato approvato. Risultato? La «definizione» – e dunque il tetto – dei prezzi per il gas non è mai arrivata. La legge c’è, ma solo sulla carta.
Benvenuti nel mondo delle mille promesse fatte e poi evaporate della mitica «agenda Draghi». Basta d’altronde consultare la banca dati dei provvedimenti attuativi per rendersi conto che in campo energetico tanto è stato detto. Ma poco, nel concreto, è stato fatto. Da un punto di vista finanziario i provvedimenti valgono tanto. Un dossier redatto dai tecnici del Senato, e consultato da Panorama, ha fatto i conti dei i decreti relativi alla crisi energetica. A oggi emerge che agevolazioni, crediti d’imposta, riduzione tariffarie e così via costeranno un indebitamento netto «monstre» pari a 28,8 miliardi di euro. Soldi che, ovviamente, da qualche parte nel corso dei prossimi anni dovranno rientrare nelle casse dello Stato. Nel dettaglio, i tecnici ritengono che «circa 20,4 miliardi sono derivanti dalle misure direttamente rivolte a contenere la spesa per elettricità, gas e carburante, e circa 8,4 miliardi destinati a ulteriori misure in favore di lavoratori e famiglie (circa 6,8 miliardi) e delle imprese (circa 1,5 miliardi)». Il problema, però, è che una fetta importante di tali interventi per la transizione ecologica non vedranno mai la luce.
Restiamo ancora sul fatidico decreto Energia, il n. 34: in totale si prevedevano ben 21 provvedimenti attuativi, ma di questi, 14 non sono sono mai stati approvati. Non si tratta propriamente di bazzecole se consideriamo che, per esempio, non sono stati disposti i «criteri di inserimento e integrazione degli impianti fotovoltaici fluttuanti (impianti disposti non sulla terraferma ma sull’acqua)», né è stato mai redatto il Piano nazionale per la riconversione di impianti serricoli in siti agroenergetici (come peraltro vorrebbe una missione del Pnrr); mai ripartite le «risorse del Fondo per la decarbonizzazione e per la riconversione verde delle raffinerie», né tantomeno sono stati determinati gli «standard tecnici e le misure di moderazione dell’uso di dispositivi di illuminazione pubblica», di cui pure tanto si era parlato.
Ma, poiché al peggio non c’è fine, il governo Draghi aveva anche pensato di stilare una vera Strategia nazionale contro la povertà energetica. Eppure il ministro proponente, sempre Cingolani, non ha (quando il nostro settimanale è andato in stampa) approvato il relativo decreto attuativo. Il risultato? Esattamente come per il resto, la norma esiste su carta, ma non nella realtà. Anzi, nella realtà le cose sono andate in maniera diversa, come spiega a Panorama il deputato di Europa Verde, Cristian Romaniello, da sempre sensibili ai temi green: «I fatti dicono che le approvazioni di impianti che producono energie rinnovabili sono una frazione rispetto alle richieste avanzate, mentre il fossile è stato applaudito dalla maggior parte dei partiti presenti in Parlamento. Senza dimenticare che il valore dei diritti umani dei nostri nuovi fornitori internazionali non sono diversi dai precedenti, e la bolletta costa sempre di più».
Il problema, come sottolinea Annalisa Corrado, responsabile delle attività tecniche del Kyoto Club, è che «tra le affermazioni iniziali,moderne e coerenti del Green Deal di Draghi, e l’operato di Cingolani c’è stato un abisso. Abbiamo visto politiche miopi e prive di visione complessiva, moderna, in grado di raccogliere le sfide della crisi energetica, climatica, sociale». A essere delusi non sono solo i tanti cittadini che si sarebbero augurati uno scatto in più sul fronte della transizione energetica, ma anche i lavoratori. Su tutti, gli autotrasportatori, la categoria più toccata dal caro energia, come riconosciuto in tempi non sospetti dallo stesso esecutivo. Non a caso si era pensato di concedere contributi sotto forma di credito d’imposta, uno «nella misura pari al 20 per cento delle spese sostenute per l’acquisto di gas naturale liquefatto usato per la trazione dei mezzi di trasporto di merci su strada», un altro, nell’ordine del 15 per cento delle spese sostenute, per «l’acquisto del componente AdBlue». Risultato? Nulla si è concretizzato dato che in entrambi i casi nessuno ha stabilito «criteri e modalità per il rilascio di un contributo».
Avrebbero dovuto occuparsene i Cingolani, Franco insieme con Enrico Giovannini, titolare del dicastero delle Infrastrutture e delle mobilità sostenibili. Identico discorso per tutte le aziende che si occupano di trasporto. Con il famigerato decreto Aiuti si prevedeva, tra le altre cose, la spesa di un milione per «le imprese esercenti servizi di trasporto di passeggeri con autobus». Mai approvate, però, le «modalità di attuazione per la spesa». E sebbene oggi si parli di impianti di rigassificazione necessari (con Carlo Calenda che addirittura si dice pronto a militarizzare Piombino), anche le imprese sono rimaste con le mani in mano dato che le «modalità di impiego del fondo per limitare il rischio sopportato dalle imprese di rigassificazione» non sono state rese note.
Così i miliardi, che pure sono stati conteggiati per calcolare l’indebitamento netto per il caro energia, sono rimasti nel cassetto. Proprio come i 500 mila euro previsti dal decreto Sostegni per l’erogazione di un contributo per «l’attenuazione degli aumenti del costo dell’energia elettrica in favore delle famiglie e delle persone che utilizzano presso la propria abitazione energia elettrica per apparecchiature mediche salvavita». O, ancora, come i 150 milioni per il 2022 e i 500 milioni per ciascuno degli anni dal 2023 al 2030 (totale: 4,1 miliardi) del Fondo istituito per la ricerca e sviluppo di tecnologie innovative anche tramite la riconversione di siti industriali esistenti. Tutto fermo, dunque. E, a quanto pare, non è solo questione di provvedimenti attuativi mai pervenuti ma, come spiega ancora Corrado, «manca una strategia: non si sa dove si vuole andare e così si naviga a vista». Un’ulteriore dimostrazione di questi limiti? «In un anno e mezzo il governo avrebbe dovuto e potuto aggiornare il Pniec, il Piano nazionale integrato energia e clima, che oggi è vecchio e inutile considerando gli obiettivi europei, specie sulla decarbonizzazione (prevista entro il 2050, ndr)». E invece troppi provvedimenti restano al palo. Eccola l’agenda Draghi: parole quante se ne vuole, ma i fatti dicono altro.