Project bond, da Roosvelt a Monti lo strumento per investire di più in infrastrutture

José Barroso nei panni di Franklin Delano Roosevelt. Il paragone potrebbe essere troppo ambizioso per il gran capo della Commissione Ue visto che l’ex presidente Usa (inquilino recordman assoluto della Casa Bianca con 4 elezioni consecutive vinte!) è l’icona del politico “giusto” per antonomasia. Ma che José abbia dato una occhiata (e anche più) al New Deal di colui il cui ritratto campeggia sui 10 centesimi di dollaro (“dime”) è cosa certa.

Roosevelt superò la crisi del ’29 investendo centinaia di miliardi di dollari di bigliettoni verdi di denaro pubblico in grandi infrastrutture stimolando così occupazione e crescita del prodotto interno lordo? Bene! È quello che faremo anche noi. È quanto avrà pensato Barroso nell’autunno del 2010 quando per primo lanciò l’idea dei project bond.

Non l’ennesima diavoleria della finanza creativa. Almeno sulla carta. Ma uno strumento che ha il duplice obiettivo di dare un colpo di acceleratore agli investimenti in infrastrutture strategiche (e non) aggirando l’ostacolo della mancanza pressoché totale di quattrini a disposizione dei singoli Stati.

Non è un caso se le spese in conto capitale (quelli per gli investimenti, appunto) subiscono un taglio a doppia cifra anno su anno (vedere anche “spending review”). Quindi? Investimenti si, ma chiamando a raccolta i privati. Con i project bond, appunto. In italiano: si tratta di emissioni obbligazionarie finalizzate alla realizzazione di un progetto.

Il loro rendimento e soprattutto il loro rimborso dipendono dai flussi finanziari che il progetto in questione è in grado di assicurare. Sono destinati a investitori istituzionali (tra cui fondi pensione e assicurazioni) con un orizzonte di lungo termine. E a garantirli, almeno in parte, ci pensa la Banca europea per gli investimenti (Bei). L’idea di Barroso & Co. infatti è di dividere il prestito in più parti con diversi gradi di rischio e affidare alla Bei il compito di accollarsi la parte più rischiosa.

Così si alzerebbe l’affidabilità delle quote destinate ai big privati e si abbasserebbe il costo complessivo del bond. Sembrerebbe la quadratura del cerchio. E il “trucco” sarebbe in grado di generare 1.500-2.000 miliardi di euro di investimento entro il 2020 su scala europea. Parola dei tecnici Ue. Anche se non manca chi solleva perplessità sul tema parlando di “ottimismo eccessivo”.

E in Italia? I Monti boys sono sostenitori convinti dei project bond. Al punto da averne perorato la causa nel decreto infrastrutture varato il 20 gennaio con il corposo pacchetto sulle liberalizzazioni.  Il testo recita così: “Le società costituite al fine di realizzare e gestire una singola infrastruttura o un nuovo servizio di pubblica utilità possono emettere, previa autorizzazione degli organi di vigilanza, obbligazioni… purché destinate alla sottoscrizione da parte di investitori qualificati”.

E ancora: “Le obbligazioni sono nominative e non possono essere trasferite a soggetti che non siano investitori qualificati”. In altre parole: sono i project bond in salsa italiana. Funzioneranno? Si spera, è ovvio. Ma l’idea che possa trattarsi di un modo seppure abbellito di spostare su soggetti para-privati il peso degli investimenti dello Stato (o meglio dei mancati investimenti) è dura da sconfiggere.

P.s. Persino l’icona pop Michael Jackson ha celebrato Franklin Delano Roosevelt in “They don’t care about us”. Buon ascolto!

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