C’è quello sull’eutanasia e quello sulla giustizia. E poi è arrivato quello sulla cannabis che ha subito raggiunto le 500 mila adesioni grazie al clic online… Ma nella corsa alla consultazione popolare il rischio è che grazie a un pugno di follower in più passino quesiti improbabili, su cui non c’è alcuna reale coscienza. L’opzione digitale è veloce, bypassa definitivamente la rappresentanza politica, ma non fa bene al Paese.
«Con la firma digitale quanti referendum potrebbe proporre la Ferragni in un mese?». Con una frase sola Massimo Cacciari ha scritto un editoriale e ha inchiodato il parlamento alle proprie responsabilità. Nell’autunno della democrazia rappresentativa (sostituita da Dpcm e cabine di regia), per abrogare le leggi più controverse e cambiare le divise dei portalettere, ma anche i colori della bandiera italiana, non sono necessarie idee e maggioranze.
Bastano i follower. Soprattutto quando sono 23,9 milioni come quelli della influencer cremonese, facilmente raggiungibili ed emozionabili con un paio di ciabatte di visone ai piedi. Nell’era digitale 500 mila firme sono poche e si ottengono agevolmente con l’ausilio dello Spid, che 20 milioni di italiani hanno già fra le password di casa. Lo conferma un dato sorprendente: la soglia minima per la consultazione sulla depenalizzazione della cannabis è stata raggiunta in una settimana. Se aggiungiamo il referendum sulla giustizia, quello sull’eutanasia, la richiesta più o meno strumentale di referendum per l’abolizione della caccia, per l’abolizione del green pass e per la revisione del Reddito di cittadinanza, ci accorgiamo che una malattia di ritorno si sta insinuando nelle pieghe della società: la referendite acuta.
Marco Follini, politico di lungo corso, definisce così la tendenza: «Il referendum rischia di essere il prossimo primattore sulla scena politica italiana. E con l’escamotage della firma digitale, la raccolta delle adesioni dei cittadini sembra quasi diventata una passeggiata su un letto di rose». Se la consultazione sulla giustizia fortemente voluta da Matteo Salvini è il risultato di 20 anni di paralisi parlamentare (con conseguente corsa dei cittadini ai banchetti della Lega e dei Radicali), l’esempio cannabis e in parte eutanasia testimonia lo strapotere dello strumento digitale. L’uso della firma online è stato inserito in un emendamento nel decreto Semplificazioni approvato all’unanimità a fine luglio in commissione Affari costituzionali e Ambiente.
Il blitz è stato di Riccardo Magi, deputato di Più Europa, mentre molti colleghi mettevano le pinne in valigia. Ancora una volta un radicale, che adesso esulta: «La svolta è epocale e positiva. È un allargamento della democrazia diretta e al tempo stesso il coinvolgimento di una parte della società spesso esclusa dalla politica, i giovani».
È difficile non tornare sul pianeta di Marco Pannella, a quelle battaglie civili degli anni Settanta e Ottanta, drammatiche e ostacolate dall’establishment. Impossibile non ricordare gli scioperi della fame e della sete, i bavagli, i minuti muti davanti alla telecamera mentre «gli indifferenti» dei partiti al potere si mettevano di traverso ridicolizzando i suoi slanci, giusti o sbagliati che fossero. Allora, nell’era dell’inchiostro e della carta, i radicali ottennero 20 milioni di sottoscrizioni fabbricate a mano per una quarantina di quesiti. Viste con gli occhi di oggi, le regole in vigore ai tempi delle storiche consultazioni su divorzio e aborto erano simil medioevali: «Per le firme devono essere usati fogli di dimensioni uguali a quelli della carta bollata, ciascuno dei quali deve contenere all’inizio di ogni facciata, a stampa o con stampigliatura, la dichiarazione della richiesta del referendum».
Ora si passa dal banchetto allo Spid, si partecipa dal divano guardando gli «highlights» della Champions league. Con due soli freni: il costo di un euro a firma (quindi i promotori devono avere sul conto mezzo milione di finanziamenti) e il passaggio nei Comuni per la certificazione manuale che il cittadino firmatario sia effettivamente residente, abbia dato una firma valida, sia dotato dei diritti civili per votare. Conseguenza prevedibile: Comuni ingolfati, referendum rallentati, con il rischio di far scadere i termini di legge. Il collo di bottiglia ha obbligato il Parlamento a prorogare a fine ottobre le tempistiche per i tre referendum in ebollizione, anche se quello sulla giustizia non ne avrebbe avuto bisogno perché è stato adottato da cinque Consigli regionali (Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Umbria e Sicilia), che insieme possono richiedere l’abrogazione totale o parziale di una legge. A tutti servono i due lasciapassare di ammissibilità, dalla Corte di cassazione sulle firme e dalla Corte costituzionale nel merito dei quesiti. Probabile via libera per cannabis e giustizia (a meno di qualche trappola della casta togata); meno facile l’autorizzazione del referendum sull’eutanasia, fortemente voluto da Marco Cappato, che rischia l’inammissibilità «perché autorizza ogni forma di omicidio del consenziente, anche se determinato da una depressione, da un fallimento finanziario, da una delusione sentimentale». A dirlo non è un militante cattolico oscurantista, ma Luciano Violante. Con la corsa al referendum l’Italia diventa il primo Stato al mondo in cui è possibile sottoscrivere online leggi di iniziativa popolare. È vero che dalla Costituzione sono espressamente escluse «le norme tributarie, di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali», ma la breccia è molto larga. Mentre il parlamento gioca a scacchi con soporifere mosse contrapposte, il Paese reale corre, bypassa, mette la freccia. E prendendo spunto dalla trovata di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio di applicare la democrazia diretta alle scelte politiche attraverso una piattaforma digitale (la decaduta Rousseau), va pure oltre.
Giuseppe Brescia, deputato del Movimento 5 Stelle delinea il nuovo orizzonte: «L’entusiasmo di questi mesi dimostra che il referendum è uno strumento vivo. Ora dobbiamo fare un passo avanti approvando la riforma del referendum propositivo, già votata alla Camera. Oggi i cittadini possono solo abrogare norme e non sono in condizione di presentare proposte in maniera compiuta». Sarebbe l’ultimo passo verso l’abolizione della democrazia rappresentativa già indebolita dalla fragilità dei partiti; in un Paese fortemente litigioso e istintivo come il nostro si profilerebbe il rischio di una libertà da luna park.
Anche nella riflessiva e calvinista Svizzera, dove l’uso del referendum è storicamente efficace, si cerca di non abusarne. Molte polemiche sta suscitando la decisione di portare alle urne il popolo (a novembre) sul tema Covid: secondo tre associazioni «i limiti alla partecipazione della vita sociale per i non vaccinati sono incostituzionali». Sulla scorta di quell’esperienza, anche in Italia potrebbe teoricamente profilarsi (ma è improbabile) la richiesta di una consultazione anti green pass. Mentre da più parti si sottolinea che si sta snaturando un pezzo di democrazia, il coinvolgimento popolare non spaventa i custodi della Costituzione. In un podcast per il Corriere della Sera, Sabino Cassese trova questo ritorno di fiamma «uno svegliarino per i partiti, una sollecitazione per il parlamento a tornare alla buona, sana, alta politica». E ritiene non sia il caso di diventare luddisti, distruggere le macchine per preservare l’esistente. «La realtà evolve con la tecnologia e se uno strumento è più moderno va usato. Ma non vedo preoccupazioni democratiche, la raccolta firme è solo più veloce, il resto è al vaglio della Cassazione e della Corte costituzionale che pongono i limiti».
Piuttosto, il costituzionalista vicino al Quirinale vede il solito vecchio vulnus: «Il quesito referendario deve presupporre due sole risposte, sì o no. Bianco o nero. Repubblica o monarchia. Divorzio o non divorzio. I referendum abrogativi fatti alla maniera di Pannella, che manipolando le norme costruiscono nuove norme, sono un tradimento della Costituzione».
La referendite dilagante sta provocando una singolare variante, la minaccia del voto come arma politica. Dicesi: trattare con la pistola sul tavolo. Metodo usato da Matteo Renzi, che neppure si preoccupa di dissimularlo: «Il Reddito di cittadinanza era considerato intoccabile. Da quando ho minacciato di fare un referendum per abolirlo, sono diventati tutti più possibilisti sulle modifiche. Cancelleremo navigator e furbetti, è solo questione di tempo. In questo caso viva il referendum».
Se lo dice lui che da un referendum fu travolto quando era premier, è la chiusura del cerchio.