Lifestyle
November 05 2013
Ricordo in un libro di scuola la didascalia a una foto di trincea che diceva: "L'Europa della Belle Époque scaglia i suoi figli nella fornace". Era il modo elegante che l'editor del volume aveva usato per sintetizzare la sorpresa dell'Europa - di una parte almeno - davanti alla tragedia della Grande Guerra e al fatto che si fosse rotto l'incantesimo di quegli anni di progresso.
È vero che poi gli storici hanno dimostrato quanti fossero i segnali già allora chiaramente visibili della precarietà del mondo di sviluppo e pace garantito in Europa dall'equilibrio fra le potenze: basterebbe ricordare - fra i molti indizi rintracciabili - che il 1913 si chiuse mettendo in bacheca ben due guerre nei Balcani a distanza di poche settimane.
Due guerre che misero chiaramente in evidenza il potenziale esplosivo e facilmente innescabile formato dal nazionalismo serbo , dalla politica di potenza conservatrice del territorio dell'Impero asburgico, dalla corsa dei piccoli stati balcanici alla spartizione delle spoglie dell'Impero ottomano.
Due guerre che evidenziarono anche la tendenza alla crudele violenza sui civili che i conflitti moderni portavano su una scala mai vista prima.
Eppure l'Europa non capì.
O meglio, una parte della società civile, dell'Europa colta e borghese, continuò a guardare con ottimismo al futuro, alla possibilità di stare in equilibrio. Un ottimismo figlio del progresso economico e tecnologico, ma anche artistico e letterario. E della cecità di fronte all'orrore che la civile Europa stava infliggendo ai popoli delle colonie, nei tanti cuore di tenebra.
Di questa condizione di (quasi) inconsapevolezza è splendido testimone Stefan Zweig. Lo scrittore ebreo-austriaco, morto suicida nel 1942 scrisse in Il mondo di ieri, una autobiografia che ha voluto essere la narrazione del destino di una generazione.
E ancora, nel capitolo "Le prime ore della guerra del 1914":
Già, nel Belgio.
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