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Perché la Franzoni non può uscire dal carcere

Il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha negato gli arresti domiciliari ad Anna Maria Franzoni, condannata nel maggio 2008 dalla Cassazione a 16 anni di reclusione per «avere lucidamente ucciso» il figlio. Il piccolo Samuele Lorenzi morì a soli tre anni il 30 gennaio 2002 per le gravissime ferite inferte alla testa, nella casa dei Franzoni a Cogne. La donna, che nel carcere di Bologna ha trascorso finora circa 4 anni, aveva richiesto di scontare a casa il residuo della pena per assistere gli altri due figli. I giudici però hanno risposto negativamente, anche perché la condannata è ormai decaduta dalla potestà genitoriale.

Ma il motivo «forte» del rifiuto deriva dalla brevità della pena scontata finora dalla Franzoni. Del resto, già lo scorso luglio la Cassazione aveva negato alla condannata la possibilità, almeno per i prossimi quattro anni, di usufruire di permessi per uscire dal carcere di Bologna dov'è reclusa. La Cassazione aveva così deciso a causa della gravità del reato commesso e in base alle regole stabilite nell'ordinamento penitenziario nei confronti dei «detenuti pericolosi».

Secondo la prima sezione penale della Corte, la breve durata della pena espiata impedisce alla Franzoni il diritto stesso a chiedere di trascorrere tre giorni al mese con la famiglia. Per i reati gravi come quello per il quale è stata condannata la Franzoni, i detenuti devono aspettare di aver scontato in carcere «almeno metà della pena»: esattamente come accade per chi viene condannato per mafia e terrorismo. Rispetto ai 16 anni ai quali ammonta la sua condanna, Anna Maria Franzoni deve scontarne ancora più di 12. Quindi dovrà attendere almeno altri 4 anni per tentare di uscire dalla cella.

Già nell'agosto del 2010 la Franzoni aveva chiesto un permesso straordinario per assistere il suocero malato, che poi era deceduto quello stesso mese. E anche in quel caso il permesso le era stato negato. Va aggiunto, peraltro, che nel novembre 2008 una perizia psichiatrica, disposta dal tribunale e sollecitata dalla difesa dell’imputata, aveva confermato il rischio di reiterazione del reato, ed era stata posta alla base del divieto di incontrare i figli.

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