L’Istituto mondiale delle Nazioni unite, che dovrebbe difendere i diritti dei popoli, si contraddistingue sempre più per l’inconsistenza dei suoi interventi di pace, le gaffe imbarazzanti, la malagestione dei fondi e l’assegnazione delle poltrone a Paesi liberticidi.
A chi assegnare, si saranno chiesti all’Onu lo scorso maggio, la presidenza del Forum del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni unite (Unhrc)? Ma certo, alla Repubblica Islamica dell’Iran. Già, lo stesso Paese che ha appena impiccato gli ultimi due condannati (Yousef Mehrad e Sadrollah Fazeli Zare, rei di aver criticato l’Islam sui social media), grazie ai quali ha raggiunto la cifra record di 582 sentenze di morte in appena 10 mesi. L’ennesima delle tante contraddizioni che caratterizzano questo ente intergovernativo mondiale. Così, intanto che la polizia iraniana ha pestato fino a ucciderla la sedicenne Armita Geravand, ultima di una serie di giovani decedute per non aver indossato correttamente il velo, l’Unhrc sceglie un funzionario iraniano. E lo fa mentre il Consiglio stesso indaga sui massacri di civili da parte dell’Iran, e lo stesso relatore speciale dell’Unhrc, Javaid Rehman, descrive le azioni degli ayatollah come «crimini contro l’umanità».
Peraltro, al Consiglio per i diritti umani Onu attualmente siedono Paesi non proprio campioni di libertà: Cina, Cuba, Gabon, Gambia, Libia, Pakistan, Qatar, Russia, Senegal, Somalia, Sudan e Venezuela. Pensare che quell’istituzione era nata da una riforma, introdotta dal fu Segretario generale Kofi Annan, volta a «impedire l’infiltrazione dei regimi autoritari nell’istituzione». Tale corto circuito è in linea con le tante nomine discutibili dell’Organizzazione delle Nazioni unite: capace di designare alla Commissione per i diritti delle donne l’Arabia saudita e di elevare l’Iran a mediatore per i diritti umani, mentre il suo Segretario generale António Guterres censura Israele per la risposta all’attacco terroristico di Hamas, senza però condannare (e neppure nominare) i terroristi che hanno macellato oltre mille civili inermi lo scorso 7 ottobre. Del resto, tra i suoi Segretari generali l’Onu ha avuto anche personaggi come Kurt Waldheim, ex ufficiale tedesco accusato di crimini di guerra nei Balcani e di aver partecipato ai rastrellamenti degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Dunque, come ci si può aspettare equilibrio e incisività?
In seguito al commento di Guterres e al relativo voto Onu sul cessate il fuoco tra Israele e Hamas, il ministro della Difesa ceco Jana Cernochová ha addirittura proposto il ritiro della Repubblica Ceca dall’organizzazione. Come ha dichiarato il viceministro degli Esteri Jirí Kozák, «l’Assemblea generale si è concentrata su un cessate il fuoco con un’organizzazione terroristica. […] La Repubblica Ceca non ha posto in un’organizzazione che fa il tifo per i terroristi e non rispetta il diritto fondamentale all’autodifesa». La fotografia forse più aderente al vero ce l’ha restituita Oriana Fallaci in Apocalisse: «Ma che cosa ha mai fatto, l’Onu, fuorché sprecare migliaia di miliardi e vivere di rendita sulle parole Pace e Umanitarismo? Ha mai mosso un dito, l’Onu, per chiudere i gulag e difendere le vittime di Stalin? Ha mai aperto bocca per frenare la spietata dittatura di Mao Tse-tung, per condannare i maoisti che distruggevano i millenari templi di Lhasa e massacravano i monaci buddisti nonché i contadini del Tibet? Ha mai fermato il genocidio compiuto in Cambogia dagli Khmer Rouges di Pol Pot? Ha mai tirato le orecchie al cannibale Bokassa che quand’era presidente della Repubblica Centrafricana cucinava i suoi avversari, li mangiava cotti in salmi? Ha mai messo al bando il regime schiavista dell’ultra-islamico Sudan? Ha mai criticato i Talebani dell’Afghanistan?».
Sono passati vent’anni, niente è cambiato. E tutto ciò lo finanziamo noi. Ogni Stato membro, infatti, è tenuto a versare una quota sostanziosa per sostenere i costi mostruosi di questo ente. I contributi al bilancio dell’Onu sono determinati da scale che riflettono le capacità di pagamento basate sulla quota di ricchezza nazionale di ciascun Paese, ovvero utilizzando il reddito nazionale lordo come parametro e tenendo anche conto del livello di indebitamento di quello Stato. L’Unione europea, di conseguenza, è il maggior contributore al bilancio regolare, 23,9 per cento, davanti anche agli Stati Uniti che, con il suo 22 per cento, ogni anno versa singolarmente più soldi nelle casse delle Nazioni unite di qualsiasi altro Paese. A seguire, il secondo maggior contributore Onu è la Cina, che paga circa il 14 per cento del budget per le attività del Palazzo di vetro: dal 2013, i suoi fondi alle operazioni di «mantenimento della pace» sono quasi triplicati e Pechino fornisce più personale di qualsiasi altro membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite.
Ma tutto questo non ha condotto a un mondo più pacifico. Anzi, gli ultimi dieci anni hanno conosciuto una recrudescenza di un tendenza che, già a partire dall’istituzione dell’Onu nell’ottobre del 1945, ha visto il numero di guerre in corso ogni anno aumentare, anche se ciò ha riguardato quasi esclusivamente i conflitti civili all’interno degli Stati. L’Italia nel 2021 ha partecipato con il 3,7 per cento, pari a circa 95,6 milioni di dollari, per finanziare il budget delle Nazioni Unite, e questo solo per quando riguarda il contributo obbligatorio (che negli anni è andato aumentando). Nella classifica complessiva degli Stati membri che versano più soldi all’Onu, Roma si piazza così al settimo posto, dopo Francia, Inghilterra e Germania e Giappone. Ma poiché non esiste un unico budget delle Nazioni unite, al conto bisogna aggiungere tutta un’altra serie di fondi erogati dai singoli Paesi e destinati a programmi e agenzie specializzate che, sia pur sotto l’egida dell’Organizzazione maggiore, dispongono di vita e risorse autonome.
I budget discussi e approvati dall’Assemblea generale delle Nazioni unite, infatti, sono tre: il budget ordinario, quello per le missioni di peacekeeping e quello per i tribunali Onu. Il secondo, per la pace, è il più corposo: nel 2018-2019 sono stati stanziati 6,7 miliardi di dollari per le missioni dei Caschi blu, contro i 5,4 miliardi destinati al budget ordinario. Le quote di contribuzione per ciascun membro vengono stabilite con criteri simili a quelle del budget ordinario, con l’unica differenza che i cinque componenti del Consiglio di sicurezza (Usa, Francia, Cina, Gran Bretagna, Russia) concorrono in maniera maggiore rispetto al primo budget. Anche qui l’Italia fa la propria parte, ed è nella lista dei 10 maggiori contribuenti delle missioni di pace: ha versato quasi un miliardo di dollari negli ultimi sette anni, con una media annuale di 260 milioni. Vale la pena ricordare come l’Onu si regga su due pilastri: l’Assemblea generale, dove siedono tutte le nazioni aderenti, e il Consiglio di sicurezza, dove siedono solo 15 membri, 5 dei quali permanenti. Mentre l’Assemblea disserta sui più svariati argomenti, il Consiglio di sicurezza provvede – o meglio, dovrebbe – al mantenimento della pace e della salvaguardia internazionale.
Le regole d’ingaggio del Consiglio prevedono che ogni decisione sia messa al voto e adottata solo nel caso in cui almeno 9 membri su 15 siano in accordo. Eccezion fatta per il diritto di veto, che ciascuno dei cinque membri permanenti ha il diritto di apporre per bloccare qualsiasi risoluzione non condivida. Ne basta uno perché il voto sia respinto. Ora, considerato che i membri permanenti sono Regno Unito, Cina, Francia, Russia e Stati Uniti, si capisce l’inservibilità di questa organizzazione. Quante volte sono in accordo Usa e Russia? O Usa e Cina? Meno di una su cento. Certo l’Onu non gestisce solo i conflitti, ma anche crisi legate alla fame nel mondo, alla gestione dei rifugiati, alla tutela dei bambini. E, almeno in questo campo, i risultati si possono vedere alla luce del sole. Ma quanto ai conflitti? Con la fine della Guerra fredda e della contrapposizione Usa-Russia, la paralisi del Consiglio di sicurezza avrebbe dovuto cessare, e il nuovo ordine mondiale avrebbe potuto essere garantito meglio da un organismo che, negli anni, è invece divenuto un gigante amministrativo.
A paralizzarne l’azione non sono solo i veti incrociati delle grandi potenze, ma anche l’assenza della volontà di autoriformarsi da parte dell’Onu stesso. L’ultimo a provarci fu Kofi Annan, in carica fino al 2006: nonostante il suo impegno, il Segretario non riuscì neanche a far votare una definizione unanime di terrorismo, né una risoluzione che definisse con chiarezza i princìpi e le modalità d’ingaggio per il ricorso all’uso della forza. Nessuno dopo di lui ha messo più mano alle riforme, e anche il «negoziato inter-governativo» promosso dalla Francia nel 2009 rimane lettera morta. Perché? A prevalere su ogni altro aspetto sono ancora gli «interessi nazionali essenziali» dei membri permanenti. Che è anche il motivo per cui l’Onu è inefficiente, se non del tutto inutile.