Sul nuovo San Siro hanno vinto i freni del «sistema Italia»

Inter e Milan brindano al via libera del sindaco di Milano, Beppe Sala, al progetto per un nuovo stadio. L'accordo trovato in meno di un'ora nel secondo incontro dopo la conferma di Sala a Palazzo Marino, sembra chiudere due anni di discussioni e trattative, regalando ai due club milanesi la ragionevole certezza di poter avere - in futuro - una nuova casa. Il 29 ottobre 2021 promette, insomma, di essere ricordato come una data storica per il calcio meneghino e italiano, proietta due società iconiche avanti nel tempo e cancella la sensazione che in Italia non si possa fare nulla perché burocrazia e politica sono nemiche del cambiamento.

E' davvero così? Purtroppo no. Se è vero che il via libera di Sala sblocca una situazione che si era congelata già prima dello stop per la campagna elettorale per le amministrative, è evidente come le condizioni accettate da Inter e Milan (e dalle rispettive proprietà) pur di avere la promessa dell'ok al pubblico interesse siano da considerare capestro. Come in ogni storia contrastata che si rispetti, il veleno sta nella coda. Nel caso del comunicato, volutamente articolato e completo, con cui Sala ha annunciato l'accordo con Inter e Milan, il veleno è tutto contenuto nelle ultime tre righe dove si tocca e definisce tutto quanto riguarda le volumetrie degli interventi a supporto del nuovo impianto.

Su questo, dopo mesi di trattative, progetti rifatti spendendo denaro, concessioni e limature, Inter e Milan semplicemente hanno dovuto prendere atto della volontà del Comune di non venire incontro alle esigenze finanziarie del progetto. Il nuovo San Siro nascerà insieme a un distretto che andrà ridisegnato tenendo conto di un indice di edificabilità massimo di 0,35, quello previsto dal Piano di Governo del territorio. Non lo 0,63, o superiore, chiesto all'inizio e nemmeno lo 0,51 frutto delle discussioni protrattesi a lungo e che dovevano aver chiuso la partita.

Si tratta di decine di migliaia di metri quadrati di cemento in meno, non un dettaglio. Il fondo Elliott e la famiglia Zhang, se vorranno rendere sostenibile un investimento che era stato pensato nella misura di 1,2 miliardi di euro, dovranno rifare i calcoli, tagliare torri ed edifici, accontentarsi di spendere osservando come la loro richiesta, andare oltre il PGT, non fosse un passo al di fuori delle norme ma semplicemente un'opportunità garantita dalla Legge stadi, nata proprio per favorire la nascita di impianti di nuova generazione in un Paese che è rimasto agli anni Novanta e ai suoi sprechi.

Invece no. La maggioranza del sindaco Sala, con il forte sospetto che abbia pesato il veto della componente (minoritaria) Verde, ha posto una sorta di aut-aut in nome della logica un po' perversa per cui investire sperando di guadagnarci non è la normalità ma un modo per speculare o per "fare quattrini". Visione miope e molto ideologica, che certamente non contribuisce ad attirare investimenti in Italia e che nell'ultimo decennio ha fatto scappare più di un interlocutore. Non è frutto del caso che dei 153 stadi costruiti in Europa dal 2010 a oggi solo 3 siano stati realizzati da noi.

L'altro tema è quello dei tempi. Il nuovo stadio di Inter e Milan sarà pronto dopo le Olimpiadi invernali del 2026, nella migliore delle ipotesi nel 2027. Il distretto intorno, con attività commerciali e tutto il resto, a seguire perché non potrà prescindere dall'abbattimento con rifunzionalizzazione del vecchio San Siro, una volta spento il braciere olimpico. Significa che dal giorno della presentazione dei progetti nel settembre 2019 saranno passati non meno di otto anni. Dieci se si conta quanto fatto prima di arrivare alla scelta dei due master plan finalisti. Un'era geologica, tanto da poter affermare che Inter e Milan fanno bene a festeggiare ma nella realtà, a Milano, è andato in scena il solito teatrino del "sistema Italia": quell'intreccio di ritardi, poteri di veto, sopravvalutazione del pensiero di minoranze che spesso rappresentano poco più di se stesse a causa del quale da troppo tempo ci siamo condannati a crescere piano. Pianissimo. Quasi fermi.

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